Recensione – Westworld 1×01: “The Original”
Pubblicato il 4 Ottobre 2016 alle 17:05
“L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui”.
Dopo sei stagioni di fantasy medievale, la HBO lancia nella bolgia del palinsesto delle serie tv autunnali Westworld, uno sci-fi declinato a western.
Probabilmente divertirsi a trovare il modo più funzionale possibile per narrare una trama intricatissima dev’essere il passatempo preferito per la famiglia Nolan: sicuramente le cene a casa loro non saranno mai noiose.
Jonathan, fratello minore di Christopher, si rifa al thriller sci-fi di Michael Crichton, che ebbe un discreto successo nel 1973 (tanto che partorì un seguito, Futureworld, nel 1976, e anche una serie tv dalla vita breve, Beyond Westworld, del 1980, entrambi dimenticabili) e che trova nuova linfa nel 2016: oggi che la realtà virtuale fa praticamente parte della nostra vita, le tematiche affrontate dal Westworld di HBO sono doppiamente d’impatto.
Jonathan Nolan ricopre i panni di creatore della serie, insieme a Lisa Joy, e per questo primo episodio anche quelli di sceneggiatore e regista (ha scritto la maggior parte degli episodi, ma tornerà in cabina di regia solo per l’ultima puntata). Si diverte a straniarci completamente nei primi dieci minuti, prendendoci di peso e sbattendoci all’interno di questo mondo senza fornirci nessun manuale d’istruzioni.
Nolan mette subito in chiaro una cosa: se cercate una serie tv per stravaccarvi sul divano e rilassarvi dopo una stancante giornata lavorativa, il consiglio è quello di cambiare canale.
Le vostre meningi dovranno spremersi fino ad intorpidirsi nel corso dei 70 minuti della premiere, solo per cercare di stare al passo con l’incedere della trama e mettere insieme gli indizi e i suggerimenti che ci vengono forniti. Noi siamo tutti dei novelli Dante dinanzi al laborioso cervello dei fratelli Nolan, e aspettiamo che dalla loro abbondante tavolata caschi qualche briciola per apprendere e apprendere.
E nel susseguirsi dei minuti, fra scene in loop, duelli tra “host” e gli immortali “nuovi”, uomini vitruviani, magazzini pieni di umani nudi e in catalessi, un magnetico Anthony Hopkins e una splendida, abbagliante Evan Rachel Wood, se il vostro cervello non è ancora esploso, avrete un quadro generale più o meno esatto della situazione.
Un parco a tema western mette a disposizione le sue attrazioni per chi abbia voglia di sborsare una sconosciuta ma comunque inarrivabile quantità di dollari. Una volta entrati nel parco saremo circondati da un mondo vivo e vegeto, pulsante, popolato da androidi (detti host) talmente umani da essere umani, che giorno dopo giorno si svegliano e ripetono, senza saperlo, gli stessi gesti e le stesse azioni, muovendosi all’interno di “trame” prestabilite, pronunciando dialoghi già “sceneggiati”.
Ma queste trame, e questi dialoghi, possono variare di volta in volta a seconda dell’intervento o meno dei “nuovi”, ovvero gli ospiti del parco tematico, che sono lì per … beh, essenzialmente, per fare ciò che vogliono.
Una famiglia felice può scegliere di visitare le immense praterie del far west, oppure aiutare lo sceriffo a catturare un perfido fuorilegge. Organizzare orge con le prostitute o bere fino a svenire sul bancone del vecchio saloon all’angolo, anche ammazzare venti persone o stuprare la ragazza più bella del villaggio: il giorno dopo gli host non ricorderanno nulla, se danneggiati saranno aggiustati e la loro memoria resettata.
La cosa viene solo suggerita ma, per esempio, il misterioso personaggio interpretato da Ed Harris, un ospite del parco, si reca da anni da Dolores (la solare e incantevole Evan Rachel Wood) e da anni la stupra, giorno dopo giorno, e al suo risveglio Dolores non ricorda nulla.
E’ importante capire questo aspetto, così come lo è il fatto che per i “nuovi”, gli ospiti, non ci sono conseguenze: gli host non possono attaccare gli ospiti, né danneggiarli in alcun modo. Possono uccidersi fra di loro, questo si, seguendo i pattern prefissati di storie procedurali che si adattano ad ogni minima influenza esterna, ma non possono ferire o uccidere gli ospiti paganti del parco a tema.
Ma mentre un piccolo bug sta causando il malfunzionamento degli host upgradati con il più recente aggiornamento, il “padre” di Dolores, anch’egli un host, trova nella sua fattoria una fotografia della New York del nostro mondo, e questo sembra mandarlo definitivamente in corto circuito.
Registicamente Nolan ha optato per movimenti di camera funzionali ed eleganti, soprattutto nella scena della rapina al saloon.
L’episodio è permeato da un’inquietudine di fondo che raggiunge gli abissi più oscuri nel finale, ma la sensazione onirica pervade ogni fotogramma. La narrazione procede eccezionalmente, oscillando sulla linea sottile che separa la complessità dalla confusione, e restando magicamente sempre in piedi grazie ad una sceneggiatura brillante, immagini potenti (accompagnate dall’elettrizzante colonna sonora di Ramin Djawadi) e performance ricche di sfaccettature, che raffigurano al meglio il conflitto che riflette l’obiettivo ultimo della serie, cioè quello di esplorare il tema della dualità della natura umana.
C’è una scena particolarmente intensa durante la quale, tramite montaggio alternato, vediamo il dottor Robert Ford (Hopkins) e un suo sottoposto interrogare il mal funzionante padre di Dolores e Dolores stessa: si noti come gli host siano perfettamente in grado di provare emozioni, ma sotto comando sono costretti a nasconderle dietro una facciata di impassibilità; se vogliamo, è un po’ quello che facciamo tutti quando siamo al telefono, canalizzando le nostre emozioni attraverso i compartimenti stagni degli emoticons.
Interessante la metafora del frutto della creazione che si trova faccia a faccia col suo creatore, e tragicamente passionale la storia d’amore fra Teddy e Dolores, destinata a non compiersi mai nel loop delle loro esistenze.
Se il buongiorno si vede dal mattino, dopo trentaquattro anni (e a distanza di un anno dal sequel diretto da Denis Villenueve) la HBO potrebbe aver sfornato il seguito ideale di Blade Runner.