I Magnifici Sette – Recensione
Pubblicato il 23 Settembre 2016 alle 23:34
1889. Il villaggio di Rose Creek è assediato dalle forze del perfido magnate Bartholomew Bogue che intende impadronirsi della locale miniera d’oro. La giovane Emma Cullen, rimasta vedova dopo il primo assalto, chiede aiuto al cacciatore di taglie Sam Chisolm che ingaggia sei mercenari per difendere il villaggio. Dopo un primo scontro con le forze di Bogue, i sette devono addestrare gli abitanti di Rose Creek per fronteggiare l’epica battaglia finale.
Un gruppo multietnico di emarginati, apparentemente privi di senso morale, si unisce per respingere un’invasione che li vede in netta inferiorità numerica. Questo remake de I Magnifici Sette sembra rifarsi più a The Avengers che al classico di John Sturges del 1960, un’epopea che diede vita a tre sequel in chiave minore, ad una variazione sul tema in salsa fantascientifica (I Magnifici Sette nello Spazio) e ad una serie tv andata in onda tra il ’98 e il 2000. Il concept, risalente a I Sette Samurai di Akira Kurosawa, è diventato universale e ricorrente e gli rifà il verso nel titolo anche The Hateful Eight, ultima fatica di Tarantino.
Radunare i sette pistoleros tocca stavolta ad Antoine Fuqua che, dopo i fasti di Training Day, ha vissuto più bassi che alti, toccando il fondo con l’orribile Attacco al potere e tornando a galla, seppur annaspando, con Equalizer – Il vendicatore e Southpaw – L’ultima sfida.
Il prologo è terribilmente efficace, introducendo il glaciale cattivo interpretato da un nevrotico Peter Sarsgaard (Lanterna Verde) con atti di violenza che indignano il pubblico e suscitano la necessità di un eroe. Dramma e tragedia. Gli elementi fondamentali per la costruzione di un racconto epico.
Quando, però, s’inizia a formare la posse, la narrazione diventa troppo affrettata e poco incisiva. I sette eroi-antieroi sono monodimensionali e con un taglio eccessivamente fumettistico. E fa abbastanza specie considerando la presenza in veste di co-sceneggiatore di Nic Pizzolatto, creatore di True Detective.
Fuqua si affida ancora una volta al suo fedelissimo Denzel Washington (premio Oscar per Training Day), qui in versione cupo vendicatore. Gli fa da contraltare Chris Pratt, sempre guascone. Ricordate come disorientava Ronan l’Accusatore con un balletto in Guardiani della Galassia? Ecco, qui fa la stessa cosa ricorrendo a giochi di prestigio con le carte. Da Training Day ritroviamo anche Ethan Hawke, un tiratore traumatizzato risolto in due scene.
Si aggiungono Vincent D’Onofrio (Daredevil), un bestione brutale e cattolico al contempo; il sud-coreano Byung-hun Lee (G.I. Joe 1 e 2) è il cinese che lancia i coltelli e sembra uscito da un wuxia western; il messicano Manuel Garcia-Rulfo (Dal tramonto all’alba – La serie), piuttosto stereotipato nei suoi battibecchi con lo yankee Pratt; e Martin Sensmeier è un improbabile indiano metrosexual che scaglia frecce come Occhio di Falco. Ci sono pure le riserve. Haley Bennett, bella vedova dai capelli rossi, sventola la bandiera del girl power mentre il giovane Luke Grimes sembra essere utile solo per un eventuale sequel.
Sul piano dell’action, siamo di fronte ad uno di quei western ludici e divertiti in cui l’eroe centra il cattivo da un chilometro di distanza in mezzo alla folla e non deve mai ricaricare la pistola. Tutto verte alla battaglia finale che sembra l’unica ragion d’essere del film, ben coreografata e diretta, con sequenze spettacolari, altamente drammatiche e una violenza controllata, mai troppo esplicita. Bello e significativo l’epilogo tra la Bennett e Washington che getta la maschera dell’altruismo mostrando il proprio cinismo. Peccato che l’iconico tema musicale di Elmer Bernstein, qui riarrangiato da James Horner, trovi spazio solo nei titoli di coda.