Dylan Dog – Speciale n. 30: La fine è il mio inizio – Recensione
Pubblicato il 27 Settembre 2016 alle 11:08
L’umanità è assediata dai Ritornanti e la Terra è diventata il Pianeta dei Morti. Un Dylan Dog invecchiato e depresso conduce una vita da Immemore con Sybil Browning in un’Oasi fortificata, una sterile utopia realizzata ad immagine di Londra dal suo creatore Werner. Nel frattempo, il filosofo gnostico Herbert Simon è intenzionato a strappare gli Immemori alla loro esistenza illusoria e a restituirli alla realtà.
Nel mese in cui Dylan Dog compie trent’anni di vita editoriale, arriva nelle edicole il nuovo Speciale che prosegue la saga del Pianeta dei Morti, scritta da Alessandro Bilotta, e si apre proprio con un omaggio all’ultima tavola de L’alba dei morti viventi, primo storico numero della serie regolare. La fine e l’inizio, quindi, come anticipa il titolo della storia.
Oltre a occuparsi degli Speciali annuali, Bilotta ha trovato anche il tempo di realizzare quel capolavoro che è La macchina umana, pubblicato lo scorso aprile sulla serie regolare, che toccava già alcuni dei temi riscontrabili qui. Tra le chiavi di lettura spicca la metafora più ricorrente nelle storie dell’attuale direzione editoriale.
Il personaggio è bloccato nelle convenzioni di un limbo seriale, una realtà ripetitiva, un continuo, inevitabile ritorno alle origini a richiamare anche La Zona del Crepuscolo, luogo sacro della mitologia dylandoghiana partorita dal demiurgo Sclavi, dove ogni giorno è uguale al precedente.
Se, ne La Macchina Umana, Dylan subiva una destrutturazione, qui l’indagatore dell’incubo, immemore del suo passato, diventa un detective convenzionale, creatura di fiction intrappolata in una reinvenzione forzosa, stanca, priva di autorialità. La stessa mancanza di action, l’assenza di una componente ludica, esalta l’immobilismo del contesto utopico-distopico. in una realtà perfetta, il male non esiste e non c’è nulla su cui indagare.
Nella Londra posticcia spiccano due figure carismatiche. C’è Werner, omaggio al celebre regista tedesco Herzog, creatore dell’Oasi che si confonde tra realtà e illusione proprio come le opere del cineasta. Non a caso, Werner parla di “scenografia” e guarda la realtà da lui partorita attraverso dei video. E’ un uomo disempatico, distaccato, che osserva l’umanità dall’alto come un dio e ritiene di averle dato una possibilità di salvezza.
Gli si oppone in un conflitto di filosofie esistenzialiste, lo gnostico Herbert Simon (da Simon Magus, primo gnostico della storia) col volto di Dario Argento che intende liberare gli Immemori dall’assuefazione alla sostanza psicotropa chiamata semplicemente “fumo” (forse in riferimento alla parola “fumetto” quando l’esercizio creativo diventa meccanico, più artigianale che artistico). E si torna qui alla dipendenza dei lettori verso delle dinamiche narrative sempre uguali a se stesse.
Werner e Simon hanno quindi diverse concezioni della realtà e dell’uomo, proprio come due registi che raccontano il mondo a modo loro, secondo le rispettive sensibilità. Il dualismo è naturalmente espresso dall’oasi, che il disegnatore Giulio Camagni investe con una predominanza di bianco sterilizzante, e il Pianeta dei Morti esterno, dove veniamo subito accolti dall’oscurità delle chine. In alcune sequenze ritroviamo anche quel clima di paranoia kafkiana già proposta ne La macchina umana.
Due mondi paralleli che diventano due differenti continuity nelle quali Dylan si sposta mantenendo ricordi sfasati, proprio come nei reboot supereroistici americani, ma quasi consapevole della sua dimensione diegetica. Il ritorno al Pianeta dei Morti non è risolutivo, anzi, il protagonista si ritrova ancora bloccato in una quotidianità cristallizzata, personaggio senz’anima, privo di quell’empatia che l’ha sempre contraddistinto.
Il colpo di scena riguardante il primo ministro Lynwood implica ancora un’omologazione priva di sostanza e fine a se stessa. Le sequenze nel museo d’arte contemporanea diventano quasi astratte e l’opera intitolata “Persistenza della non esistenza” è un geniale capolavoro di sintesi che racchiude tutto il significato della storia.
Capita a volte che un autore sia così bravo (e fortunato) da intercettare il sentire del momento. Lo scorso giugno, la Gran Bretagna ha lasciato l’Unione Europea. Questo Speciale è stato concepito prima ma nell’attuale situazione sociopolitica, la storia, come pure l’Union Jack sul nome della testata in copertina, potrebbe caricarsi di nuovi significati, basti pensare all’isolazionismo degli immemori.
Il finale dell’albo chiude un cerchio rivolgendosi ancora a L’alba dei morti viventi ma con un nuovo assestamento di continuity se, arrivati a questo punto nel gioco metanarrativo di Bilotta, ha ancora un senso parlare di continuity. Il passato ritorna e, trent’anni dopo, Dylan Dog continua a rinnovarsi.