Dylan Dog n. 361: Mater Dolorosa – Recensione in anteprima

Pubblicato il 8 Settembre 2016 alle 09:00

Recrudescenza. Mater Morbi è tornata. Dylan Dog avverte di nuovo i sintomi della malattia e si tuffa in un mare di dolore, tornando al passato, alle origini, da Moonlight al 1686, sul galeone comandato dal padre in cerca del siero della vita eterna. Il destino del piccolo Dylan si decide nello scontro tra l’amorevole madre Morgana e la crudele signora della malattia.

Dylan Dog (7)

Roberto Recchioni ha fatto ammalare Dylan Dog in Mater Morbi e poi, ironia della sorte, ne è diventato il “curatore”. Sembra un semplice gioco di parole ma è proprio la suggestione da cui parte questo sequel, Mater Dolorosa, che apre le celebrazioni per il 30° anniversario di vita editoriale dell’indagatore dell’incubo. E i festeggiamenti proseguiranno il mese prossimo con il ritorno di Tiziano Sclavi, creatore del personaggio, sulle pagine della serie regolare.

Uscita ormai sette anni fa, Mater Morbi era una storia bellissima e controversa, valorizzata dai disegni di Massimo Carnevale, nella quale Recchioni proiettava le proprie tribolate vicissitudini sanitarie sulla pelle di Dylan mettendolo a confronto con un’incarnazione femminile, suadente e sadomaso della malattia.

Divenuto direttore editoriale della testata, lo sceneggiatore romano ha dovuto tamponare quella che lui stesso ha definito “un’emorragia di lettori”, tanto per restare in tema sanitario. Mater Dolorosa si apre appunto su questa metafora riallacciandosi allo storico n.100 della serie, La storia di Dylan Dog, che raccontava le origini dell’indagatore dell’incubo risalenti alla fine del ‘600.

Un galeone attanagliato dalla malattia e inseguito da un veliero fantasma, un equipaggio sul punto di ammutinarsi, un comandante che deve trovare una cura per il figlio, il piccolo Dylan, contrapponendo la luce della ragione alle forze del caos, come un direttore editoriale che deve salvare una testata alla deriva tra lo scetticismo dei lettori e, forse, anche dei colleghi sceneggiatori.

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Non bisogna restare accecati dal sole che ci impedisce di vedere le stelle, dice il comandante Dylan. In questo caso, il lettore rischia di restare abbagliato dall’enunciato visivo di Gigi Cavenago. Il colore (che fa rima con “dolore”) non è solamente un elemento accessorio ma è un tutt’uno con i disegni, è mezzo figurativo ed espressivo al tempo stesso.

L’operato dell’artista lombardo denota varie influenze ma fuse in uno stile unico, personale e inconfondibile, magistrale nelle espressioni, nel linguaggio corporeo dei personaggi, nelle sfumature, nei giochi di luce ed ombra, nelle più suggestive angolazioni di ripresa e, soprattutto, nel dinamismo. Si potrebbe aprire una galleria d’arte esponendo ogni tavola e singola vignetta dell’albo la cui cifra artistica è fuori scala. Va riconosciuto che solo la Bonelli manda in edicola un albo a colori di questa qualità a soli tre euro e venti. Ma non facciamoci abbagliare, dicevamo, e guardiamo anche al sottotesto.

Nel presente, avvolto da una raggelante ombra blu-violacea, Dylan si sveglia da un doppio incubo. Tre livelli narrativi, quindi, con altrettanti livelli di lettura, destinati a convergere: la realtà cristallizzata e più superficiale dell’indagatore dell’incubo; la dimensione astratta, deformata, straniante e fortemente autoriale che vede il protagonista alle prese con Mater Morbi, in un giallo insalubre e disturbante; e poi il flashback nel diciassettesimo secolo a ricordare che tutto riconduce a Sclavi e alla continuity da lui generata.

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L’empatia è sempre stata un elemento di caratterizzazione fondamentale per Dylan e la malattia lo spinge qui a diventare cinico. Un personaggio senz’anima, privo di autorialità, bloccato in una stucchevole routine seriale. In un primo sguardo indietro, il suo atteggiamento distaccato rimanda a quello di Francesco Dellamorte, archetipo letterario dell’indagatore dell’incubo sempre firmato da Sclavi.

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Malati di nostalgia, i fan chiedono in continuazione un ritorno alle storie delle origini. Dylan torna così ai suoi inizi, a Moonlight, ma la trova trasformata da John Ghost, emanazione e creazione di Recchioni. Il protagonista e il lettore ne restano indispettiti. E’ per il bene di Dylan, dice Ghost, per staccarlo dal suo passato e permettergli di rinnovarsi. Ma il villain riconosce anche l’imprevedibilità dell’avversario, l’eroe-antieroe si dimostra sfuggente, più forte dello sceneggiatore.

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In un racconto pubblicato qualche anno fa, Stephen King ha detto che il dolore è verde. Sembra acido il mare in tempesta solcato dal galeone di Mater Morbi. Qui lo spettacolo visivo ci trascina in un ludico, infernale incubo ad occhi aperti: una nave fatta di ossa, un timone che pare uno strumento di tortura, vele intessute di anime agonizzanti sostenute dall’Albero delle Pene, simbolico e ricorrente fulcro su cui ruotano gli universi narrativi di Recchioni. Nelle vignette tutto appare in continuo movimento, tra schizzi d’acqua e scintille che sprizzano da fiamme che sembrano liquide, fatte di sangue.

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Sclavi ci ha raccontato come il padre di Dylan si sia scisso in due metà, separandosi dal lato oscuro rappresentato da Xabaras. Qui Recchioni imbastisce la stessa dicotomia tra Morgana e Mater Morbi, la madre amorevole e quella crudele per un personaggio che ha bisogno di essere coccolato e torturato, protetto e ferito al tempo stesso per poter evolvere. Un dualismo rispecchiato dalla costruzione delle tavole. Ed è indicativo che Morgana impugni una lama di luce, una “lightsaber”, per affrontare la controparte oscura. (E parimenti alla saga cinematografica di George Lucas, anche il padre di Dylan cede al lato oscuro cercando l’immortalità.) Il tema del ruolo genitoriale e la forza della figura materna sono quindi elementi ricorrenti nella narrativa dello sceneggiatore, riscontrabili anche in Orfani, altra serie Bonelli attualmente in corso.

A riportare equilibrio è proprio Dylan il cui ragionamento finale rimanda a quello di Victor in Mater Morbi. Non rifuggire il dolore, non compiangersi, non lasciare che ti peggiori, ma accettarlo per poter crescere. Un processo catartico sintetizzato dalla doppia splash-page finale. Siamo di fronte ad un vero e proprio reboot che non nega la continuity precedente. Il personaggio cambia restando lo stesso.

La riflessione su raziocinio e caos non risparmia uno sguardo all’attualità sociopolitica. L’Inghilterra, faro illuminista nell’Europa del diciottesimo secolo, ha recentemente lasciato l’Unione Europea. I morti viventi diventano qui simbolo di un’umanità che agisce offuscata dalla paura. Nell’arco di due tavole, Mater Morbi dice che cercare di far trionfare il raziocinio sul caos ha creato un mondo di morti viventi ma anche che il sonno della ragione genera mostri.

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Un giorno Dylan Dog morirà, la serie avrà fine, ma il “vaccino” di suo padre lo ha reso comunque un personaggio eterno. Per ora l’indagatore dell’incubo è guarito. La testata è in salute ma il personaggio può ancora soffrire per carenza di fervore creativo. Devono essere gli autori a trovare empatia con il personaggio, a interpretarlo con la testa, con il cuore, con la pancia… e con il sangue. Dylan Dog è il personaggio Bonelli che più di chiunque altro richiede un tale approccio. Lui, come dice Mater Morbi, “sanguina come nessun altro”.

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