Man in the Dark – Recensione

Pubblicato il 7 Settembre 2016 alle 23:39

La giovane Rocky, il suo ragazzo Money e l’amico Alex sono tre ladri di Detroit che sognano di fuggire in California. Decidono così di derubare Norman Nordstrom, un veterano di guerra non vedente che ha ricevuto un cospicuo risarcimento dopo la morte della figlia, investita da una ragazza appartenente a una famiglia facoltosa. Quello che doveva essere un furto facile per Rocky e i suoi compagni si trasforma in una notte da incubo e in una disperata lotta per la sopravvivenza.

Man in the dark (2)

Avete mai pensato come si senta un criminale che viene braccato da Daredevil? Forse il regista uruguaiano Fede Alvarez è partito da questo spunto per il suo nuovo thriller, Man in the Dark, titolo “italiano” di Don’t breathe. Alvarez si è messo in luce tre anni fa con il remake de La Casa, ottimo e sottovalutato (perché se ti azzardi a fare il remake di un classico, i fan te lo stroncano a prescindere), prodotto da Sam Raimi, regista dell’originale, che torna qui nella stessa veste.

Anche la protagonista è la stessa, la deliziosa Jane Levy che il regista ha evidentemente deciso di eleggere come sua “final girl” prediletta, destinata a sopportare ogni nefandezza. I tre protagonisti formano un triangolino piuttosto risaputo: lei, il ragazzo antipatico di lei e l’amichetto buono e coraggioso innamorato di lei. Dovranno vedersela con Stephen Lang nel ruolo di un letale ex-militare non vedente che ricorderete proprio nel ruolo del glaciale colonnello di Avatar.

Il concept suscita subito una domanda: perché il pubblico dovrebbe fare il tifo per i tre ladruncoli e non per il padrone di casa che cerca, in fin dei conti, di proteggere i suoi beni? La risposta arriva a metà film quando l’uomo mostra la sua vera natura di psicopatico.

L’omaggio a La Casa Nera del compianto Wes Craven è palese. Come nel remake del film di Raimi, siamo ancora intrappolati in un’abitazione, un ambiente domestico. Rocky cerca di sfuggire ad una madre negligente e sente la mancanza del padre, si ritrova così a lottare con una distorsione della figura paterna, simbolico ostacolo da superare per andare avanti con la propria vita.

Nelle mani di un regista mediocre, il concept di base darebbe vita ad un film convenzionale e dimenticabile. Ma il talento di Alvarez si evince nelle sequenze thrilling congegnate con grande inventiva. Il buio che cala nell’abitazione fornisce al pubblico la prospettiva del cacciatore.

Alvarez evita l’effetto “respiro” della handycam e decide di usare la steadicam che si muove sempre a stretto contatto coi personaggi, comunicando al pubblico la percezione di uno spazio angusto, trasmettendo tensione e fiato sospeso. Gli effetti sonori sono ovviamente fondamentali dal momento che il cattivo si orienta con il suono ed ogni lieve scricchiolio può essere fatale ai protagonisti.

Quando tutto sembra finito, l’orrore ricomincia con una sequenza che rimanda, tra l’altro, a Cujo di Stephen King e prelude al vero finale. L’epilogo lascia tutto aperto per un eventuale sequel a dimostrare che certi incubi, certe esperienze traumatiche sono difficili da lasciarsi alle spalle e continueranno a perseguitarti quando sarai solo e al buio.

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