Paradise Beach: Dentro l’incubo – Recensione

Pubblicato il 25 Agosto 2016 alle 19:54

Nancy è una studentessa di medicina che ha deciso di abbandonare gli studi dopo la morte della madre. Durante una vacanza in Messico, la giovane texana raggiunge un’isolata spiaggia nota a pochi per fare del surf. Viene però attaccata da uno squalo che la costringe a rifugiarsi su uno scoglio. Senza nessuno che la aiuti e con una gamba gravemente ferita, per Nancy inizia una disperata lotta per la sopravvivenza.

Paradise Beach poster

“Devo continuare a respirare perché domani il sole sorgerà e chissà la marea cosa può portare”, diceva Tom Hanks, naufrago su un’isola deserta in Cast Away di Robert Zemeckis. In Paradise Beach: Dentro l’incubo (improprio titolo “italiano” di The Shallows), la bellissima Blake Lively, confinata su uno scoglio ben più piccolo e inospitale, sa benissimo cosa porterà la marea: un famelico squalo intenzionato a fagocitarla. Messaggio più cinico e pessimista ma ragione di più per lottare e tentare di sopravvivere.

Diretto dallo spagnolo Jaume-Collet Serra, noto soprattutto per una serie di action-thriller con Liam Neeson (Unknown – Senza identità, Non-Stop, Run all night – Una notte per sopravvivere e il prossimo The Commuter) rientra in quel filone di thriller survival e psicologici nei quali il protagonista è spesso intrappolato in un luogo isolato e in una situazione disperata (Curiosamente, Ryan Reynolds, compagno della Lively, è stato protagonista qualche anno fa di Buried, sempre dello stesso filone). In questo caso il mix tra Open Water e Lo Squalo di Spielberg è piuttosto evidente anche se la tematica della lotta per la sopravvivenza come metafora di elaborazione del lutto porta a pensare a Gravity di Cuaron.

I simbolismi sono fin troppo didascalici. Lo scoglio in mezzo al mare è il piccolo limbo in cui è persa la protagonista che si rispecchia nell’amico gabbiano, incapace di spiccare il volo, mentre lo squalo incarna i demoni interiori che la perseguitano. Dover far ricorso alle proprie conoscenze mediche dopo aver abbandonato la facoltà di medicina è il percorso di redenzione da intraprendere.

L’avvio spensierato esalta la bellezza dello scenario naturalistico e la svolta drammatica rende improvvisamente il contesto ostile e terribile. Quando l’azione è concentrata in un’unica unità di luogo, l’unico modo per conferire dinamismo è attraverso idee di regia e di montaggio. In tal senso il film è ben ritmato e funziona. L’handycam amplifica il realismo tenendoci sempre vicini a Blake Lively, splendida e credibile, ed è un assoluto piacere. Pur soffermandosi costantemente sul corpo dell’attrice, in bikini o in rash guard da surf, lo sguardo registico non è mai malizioso. Anzi, ogni inquadratura sul volto o sul corpo della protagonista è del tutto funzionale.

I primi attacchi dello squalo vengono diretti attraverso la soggettiva della bestia che quindi resta inizialmente nascosta agli occhi del pubblico. Le sporadiche sequenze violente sono molto edulcorate e prive di splatter per rispettare il PG-13. Tra gli altri espedienti, quando la protagonista è in videochiamata col cellulare o guarda l’orologio, i display vengono mostrati in sovraimpressione senza staccare l’inquadratura dall’attrice. Retorico ma catartico il monologo di fronte alla piccola videocamera in pieno stile found-footage.

La tensione sale insieme all’alta marea e sfocia nell’adrenalinica sequenza action finale che giustifica il prezzo del biglietto. L’epilogo è accomodante ma sensato. E’ un compitino fatto e finito, senza infamia e senza lode, privo di autentici sussulti o originalità ma riesce a tenere per un’ora e mezza grazie soprattutto alla performance di Blake Lively che cattura gli occhi e il cuore del pubblico.

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