CinemaForever #8: Andrei Arsenyevich Tarkovskij e la poesia filmata

Pubblicato il 31 Agosto 2016 alle 15:00

Oggi, a CinemaForever, parliamo di uno dei maggiori artisti cinematografici di sempre: il sovietico Andrei Tarkovskij.

Il cinema è l’unica forma d’arte in grado di riprodurre l’effettiva consistenza del tempo, l’essenza della realtà, filmandolo e fissandolo per sempre.

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Cromatismi esagerati ed intensi, composizioni spesso oblique, ampie panoramiche. E poi, ad un certo punto, l’esatto contrario, con lente carrellate, piani frontali, con inquadrature molto lunghe, composizioni verticali o orizzontali, immagini al limite dell’assenza di colore.

L’opera di Tarkovskij è stata caratterizzata da una doppia visione, mutevole, come se il cineasta russo fosse stato alla ricerca di un senso più profondo, che andasse al di là di ciò che la sua cinepresa filmava e che lo spettatore poteva vedere. Come se Tarkovskij volesse filmare non la vita, non la storia, ma l’arte della musica e della poesia che la vita e la storia ispirano.

Avvicinatosi al cinema durante il disgelo russo, quando la sua nazione godeva di un periodo di liberalizzazione dalla stretta di ferro di Stalin, Andrei Tarkovskij ebbe modo di esprimere tutto il proprio potenziale senza ansie o timori politici.

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Il suo primo lungometraggio (L’Infanzia di Ivan, del ’62) si erse a rappresentare l’assassinio della personalità che la guerra commette verso chi la vive con occhi innocenti. Il film, che fotograficamente si fece fiero eco dell’espressionismo tedesco, già poteva vantare elementi tipici della matrice tarkovskijana: dolci carrellate in avanti e indietro, movimenti complicati e lunghi che richiamano ad una composizione poetica particolarmente ardita.

La narrazione è un flusso ritmato, scandito dallo scorrere del fiume del tempo ormai arido, nel cuore del protagonista, per colpa degli orrori vissuti nel periodo di guerra, e l’oscurità della realtà che lo circonda fa da contraltare alla freschezza luminosa dei ricordi, dei flashback, o dei voli pindarici col quale Ivan immagina e sogna e desidera un passato migliore di quello che ha realmente vissuto.

Tarkovskij punta il dito verso il paradosso generazionale che è a tal punto vissuta e cresciuta nella guerra e nella sofferenza che, in tempi di pace, è tormentata dal disagio. Jean-Paul Sartre loderà il film sotto ogni aspetto, scrivendo che “Non è in alcun modo una questione di espressionismo, né di simbolismo, ma una determinata forma di narrazione.”

Con Andrej Rublëv (1966) il regista rilegge il ‘400 russo attraverso la figura del pittore di icone omonimo. La pellicola è un pretesto che Tarkovskij sfrutta per interrogarsi sull’uomo e sull’esistenza, e nel tentativo di risolvere tali enigmi mette in luce i propri malesseri, i propri dubbi, ammiccando più o meno velatamente a sobillazioni mistiche, specificatamente ai concetti di assoluto e trascendenza, che risaltano l’ambivalenza dicotomica tra l’eternità del mondo spirituale e la caducità delle vicende materiali.

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La visione teurgica dell’arte risplende in ogni fotogramma della sua filmografia, che al contempo critica aspramente ogni concezione estetica utilitaristica e/o intellettuale. Di ammaliante stampo poetico sono sicuramente il fantascientifico Solaris (1972), nel quale l’equipaggio di una stazione spaziale in orbita intorno al pianeta Solaris vede materializzarsi le proprie ossessioni e fantasticherie a causa delle radiazioni di una nebulosa generata dall’oceano magmatico del pianeta, e il drammatico Lo Specchio (1975), pellicola che sembra montare insieme un flusso illogico di scene di ricordi e che si interroga sulla figura della madre, intesa personalmente (del regista), storicamente (la madre Russia) e ontologicamente (la natura, inteso come spazio di mediazione fra l’umano e il divino).

Tarkovskij si misura ancora una volta con la fantascienza nell’enigmatico Stalker (1979), ascrivendo però dettami, struttura narrativa e concetti affrontati alla cerchia del cinema d’autore. E’ un viaggio catartico e lentissimo, impregnato di simbolismo astratto e ispirato dalle visioni di profeti dell’arte del passato (Bosch, Leonardo, Bruegel, Rembrandt) e che vibra e risuona delle inquiete note di Wagner e Beethoven. Passa anche dall’Italia con Nostalghia (1983), pellicola che racconta l’amarezza suscitata dall’espatrio (sorte, quella del protagonista esiliato, che rievoca la biografia del regista, ormai sgradito in Russia e autoesiliatosi).

E’ Sacrificio (1986) l’ultima opera, pellicola riccamente popolata da omaggi ad Ingmar Bergman e nella quale si respira un’aria apocalittica direttamente riconducibile allo stato di salute del regista, che verrà a mancare nel corso dello stesso anno.

Ogni lusinga o istigazione dell’intreccio e del racconto vengono rigettate da Andrei Tarkovskij, che nel corso della sua carriera ha talmente prediletto la cifra stilistica da elevare l’arte del cinema oltre vette che, prima di lui, erano state il traguardo solo di pochi.

Bisogna sentirli, i film di Tarkovskij, limitarsi a guardarli è troppo banale: una singola inquadratura e gli elementi che la compongono, e che avvolgono al contempo e il senso visivo e quello uditivo dello spettatore, rimandano alla sensazione della poesia, e al concetto di rinnegazione del materialismo a beneficio dell’esaltazione di un universo spirituale nel quale guardare non sempre è la via più facile per vedere.

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