The Witch – Recensione
Pubblicato il 1 Luglio 2016 alle 03:07
New England, 1630. Un fondamentalista religioso inglese viene bandito dalla sua piantagione coloniale per alcuni contrasti con la comunità puritana locale. Il contadino si trasferisce con la moglie e i cinque figli su un isolato terreno ai margini di un’oscura foresta dove si cela una qualche forza malvagia. La famiglia viene flagellata da una serie di oscuri eventi. Il neonato Sam viene rapito, il giovane Caleb sparisce nella foresta e fa ritorno apparentemente posseduto dal demonio, gli animali diventano aggressivi e il raccolto marcisce. In un crescendo di paranoia e fanatismo religioso, l’adolescente Thomasin viene accusata di stregoneria.
Si può dividere l’attuale cinema horror in due correnti. Ci sono i blockbuster (o aspiranti tali) che hanno alle spalle grosse case di produzione e cercano di spaventare il pubblico con mezzucci facili quali creature digitali, effetti sonori che fanno saltare lo spettatore dalla sedia, esorcisimi triti e ritriti e “storie tratte da fatti reali”. Presentare una vicenda “documentata” dovrebbe indurre il pubblico a pensare di vivere in un mondo in cui esistono fantasmi, demoni e creature sovrannaturali tentando così di avere effetti terrificanti.
Poi ci sono piccoli film indipendenti che stanno segnando il vero rinascimento del genere con storie che riescono ad essere angoscianti perché non pretendono di raccontare fatti reali ma toccano paure reali ed intime in contesti concreti e riconducibili. In tal senso, abbiamo recentemente visto l’australiano Babadook, l’americano It Follows, l’austriaco Goodnight Mommy e adesso arriva nelle sale italiane The Witch di Robert Eggers che ha terrorizzato il pubblico del Sundance Film Festival aggiudicandosi il premio per la regia.
Il film ha alle spalle quattro anni di preparazione e documentazione che si evincono da una ricostruzione storica tangibile. E’ stata reinventata una lingua arcaica per i dialoghi, gli abiti sono stati realizzati a mano dalla costumista Linda Muir, i colori desaturati per gli esterni e l’illuminazione con le candele degli interni costituiscono la fotografia tetra ed inquietante che fa da sfondo alla terribile discesa all’inferno dei protagonisti. Eggers la racconta attraverso un certo rigore formale, inquadrature fisse che non lasciano scampo allo spettatore mentre la disturbante colonna sonora di Mark Korven ci fa digrignare i denti.
E’ un’epoca di famiglie patriarcali ed ogni piccola forma di anticonformismo da parte di una donna può essere considerato come un sintomo di stregoneria. V’innamorerete di Thomasin, interpretata dall’angelica Anya Taylor-Joy, fin dalla prima inquadratura. E’ lei ad essere il capro (è proprio il caso di dirlo) espiatorio per le molte mancanze del padre inetto.
Eggers è bravo a tenere la storia su un ambiguo equilibrio. Non è chiaro se l’elemento sovrannaturale sia davvero presente e le incertezze dei personaggi sono le stesse del pubblico. C’è una vecchia nella foresta che commette atti atroci ma non è detto che sia una strega. Il delirio febbrile del giovane Caleb mescolato alle prime pulsioni sessuali, con tanto di simbolica mela masticata, frutto del peccato, viene inteso come possessione demoniaca. I capricci dei due gemellini, il raccolto malato (a causa evidentemente della segale cornuta che causa allucinazioni) e l’irrequieto caprone nero vengono interpretati come segni di una maledizione.
La provocazione è chiara. Se il pubblico è disposto a credere nell’elemento sovrannaturale, allora aderisce al bigotto fanatismo religioso dell’epoca e sarà anche disposto a condannare Thomasin. Se, invece, siamo razionali e neghiamo la componente esoterica, allora il film fa davvero paura perché l’autodistruzione della famiglia (istituzione di forte stampo religioso), il decadimento in un baratro di follia ed orrore sfocia da ossessioni, paranoie ed ipocrisie del tutto riconducibili e attuali. Altro che maledizioni.
Altamente simbolica la sequenza d’epilogo. Denudarsi delle proprie vesti castigate ed ascendere per “vivere deliziosamente e vedere il mondo” è una potente metafora d’emancipazione femminile. Come diceva il celebre slogan del movimento femminista degli anni ’70: “Tremate, tremate, le streghe son tornate!”