Independence Day: Rigenerazione – Recensione in anteprima
Pubblicato il 4 Luglio 2016 alle 23:39
Vent’anni fa, il mondo respinse una catastrofica invasione aliena che causò più di tre miliardi di morti. Sfruttando la tecnologia delle forze extraterrestri, le Nazioni Unite hanno istituito la ESD (Earth Space Defense), programma di ricerca e prima linea di difesa globale contro la minaccia aliena. Mentre l’ex-Presidente Whitmore riceve visioni di logogrammi alieni, David Levinson, direttore dell’ESD, scopre che una nuova invasione è in arrivo.
“Se dovessimo risultare vincenti, il 4 luglio non sarà più ricordato solo come una festa americana ma come il giorno in cui il mondo, con una sola voce, ha dichiarato: ‘Noi non ce ne andremo in silenzio nella notte! Noi non ci arrenderemo senza combattere!'” Sono trascorsi vent’anni ma il discorso di Bill Pullman, nel ruolo del Presidente Whitmore, riesce ancora ad emozionare ed è il cuore palpitante di Independence Day, uno dei più celebri blockbuster di tutti i tempi, capace di incassare, all’epoca, più di 800 milioni di dollari in tutto il mondo. Il film consacrò il regista Roland Emmerich a re del genere catastrofico che rinacque a nuova vita ed ha fortemente influenzato il cinema d’intrattenimento degli ultimi due decenni.
Guilty pleasure fracassone e pop corn movie per eccellenza, Independence Day conquistò il pubblico grazie ad una struttura classica, prevedibile eppure avvincente, un cast azzeccato per personaggi accattivanti che si muovevano in un contesto riconducibile, una sceneggiatura che giocava con le leggende urbane dell’epoca: l’Area 51, i rapimenti extraterrestri, l’autopsia dell’alieno (bufala che fece il giro del mondo nel 1995, proprio l’anno prima dell’uscita del film). A tutto questo si aggiungevano effetti visivi di prim’ordine, scene di distruzione come non si erano mai viste prima sul grande schermo e battaglie che rendevano omaggio a Star Wars.
Su tutto, però, trionfava il sentimento. A trascinare il pubblico erano i protagonisti, le loro vicissitudini, i loro lutti, la volontà di risolvere le cose, unire le forze per gettare il cuore oltre un ostacolo insormontabile, a dimostrazione che quando un film possiede un forte motore emotivo, il pubblico riesce a godersi anche una storia prevedibile e a perdonare palesi stupidaggini come quel virus installato sulla nave madre aliena, divertito omaggio in chiave contemporanea al parassita che annientava gli extraterrestri ne La Guerra dei Mondi di H.G Wells.
Per lungo tempo si è parlato di un sequel che esce, appunto, per il 20° anniversario dell’originale, forse fuori tempo massimo. Il film si sta rivelando un flop di critica e pubblico negli USA, semplicemente perché carente di tutti gli ingredienti che hanno decretato il successo del predecessore. Per la prima volta, Emmerich si è trovato a dirigere un sequel e l’inesperienza è costata cara. Ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare.
A cominciare dal contesto. Il film originale si svolgeva in un 1996 riconoscibile, si parlava di Guerra del Golfo e di un mondo disunito da diversità insignificanti. Il nuovo episodio si apre in un 2016 lontanissimo da quello reale, nel quale il mondo è unificato, perlopiù pacifico, e l’umanità ha costruito basi fantascientifiche sulla luna. E il pubblico è già fuori dal film.
I protagonisti, che dovrebbero accompagnarci nella storia, non aiutano affatto, scritti con una superficialità imbarazzante. Emmerich ha dovuto rinunciare a Will Smith ed è un’assenza pesantissima sul piano del carisma e dell’umorismo. Infelice la scelta di rimpiazzarlo con un anonimo Jessie T. Usher, nel ruolo del figlio, affiancato dal sempre inespressivo Liam Hemsworth. Dovrebbero essere loro i giovani che raccolgono il testimone dai vecchi eroi ma è molto difficile che il pubblico possa innamorarsene.
A loro si affianca Maika Monroe, la coraggiosa figlia del Presidente Whitmore, di nuovo interpretato da Bill Pullman che ce la mette davvero tutta per restituire la giusta profondità al personaggio. E’ Jeff Goldblum a caricarsi il film sulle spalle cercando di apportare tutto quello che il resto del cast non può. Non si capisce cosa ci stia a fare nel film Charlotte Gainsbourg, ridotta ad una marchetta umiliante. Sorvoliamo sul signore della guerra africano che decapita gli alieni con i machete.
Conferire a Sela Ward la carica di Presidente degli USA appare una scelta progressista ma, a metà film, il girl power si prende uno schiaffo in faccia, non senza un bel po’ di umorismo. In tal senso, la storia ha una svolta piuttosto conservatrice che ha irritato più di qualche critico.
Quando l’invasione aliena ha inizio, il film diventa un banale rimaneggiamento del predecessore. Vedere il raggio alieno che distruggeva l’Empire State Building o la Casa Bianca vent’anni fa, faceva spalancare gli occhi al pubblico. Dopo l’indigestione fatta in questi anni di film del genere, la distruzione qui appare banalissima e non ci sono momenti altrettanto iconici.
A mancare soprattutto è il punto di vista della gente comune. Ricorderete come nell’originale ci fosse l’ubriacone reduce del Vietnam che sosteneva di essere stato rapito dagli alieni e finiva per diventare l’eroe del film. C’era l’ingenua spogliarellista che andava sull’Empire State a dare il benvenuto agli alieni, c’era il simpatico collega effeminato di Jeff Goldblum. Personaggi secondari che erano il sale del film e che qui sono totalmente assenti, a parte un gruppo di ragazzini che vengono aiutati da Judd Hirsch, di nuovo nel ruolo del padre di Goldblum, ma è una linea narrativa a se stante e spinta a forza nella storia.
Tutto va a parare alla battaglia finale contro la Regina-godzillona aliena, bene gli effetti visivi, ma è tutto molto meccanico, non c’è più epica né emozione. L’epilogo apre ad un terzo capitolo che potrebbe proporre un interessante rovesciamento di prospettiva ma questo secondo episodio non lascia ben sperare. Le astronavi sono più grandi, gli alieni sono più grandi, il catastrofismo è più esteso ma il cuore si è fatto vecchio e stanco come il povero ex-presidente Whitmore.