The Neon Demon – Recensione
Pubblicato il 12 Giugno 2016 alle 23:56
La giovane e bellissima Jesse giunge a Los Angeles per intraprendere la carriera di modella insieme all’amico Dean, aspirante fotografo innamorato di lei. Jesse alloggia in uno squallido motel gestito dall’inquietante Hank, si attira subito le invidie delle modelle Gigi e Sarah e fa amicizia con la truccatrice Ruby, che sviluppa però un’attrazione morbosa verso di lei.
Il cinema danese sta diventando sinonimo di provocazione, da Lars Von Trier, passando per Thomas Vinterberg, fino a Nicolas Winding Refn che ha ammaliato Cannes nel 2011 con Drive raccogliendo poi fischi con le due prove successive, Solo Dio perdona e quest’ultimo The Neon Demon che parte da una riflessione piuttosto banale e retorica su una società ossessionata dalla superficialità della bellezza a scapito di valori etici e morali.
Durante la conferenza stampa italiana del film, Refn si è risentito quando qualcuno ha cercato riferimenti e influenze all’interno del suo film. Ma siccome a lui piace irritare la critica, il gioco è reciproco. Prendete quei thriller-horror realizzati in casa nostra e ambientati nel mondo della moda, quali Sei donne per l’assassino di Mario Bava o Le foto di Gioia del figlio Lamberto, o ancora Sotto il vestito niente di Vanzina, mescolateli ai film adolescenziali con la teenager di turno che giunge a Los Angeles in cerca di successo e filtrate tutto attraverso un’estetica che riunisce suggestioni da Kubrick, Lynch, Argento, Aronofsky e Cronenberg in uno sguardo del tutto unico e personale.
Più che concentrarsi sulla vacua struttura narrativa, il regista inanella una serie di simbolismi e astrazioni in un contesto riconducibile e surreale al contempo sostenuto dalla fotografia patinata e ipnotica di Natasha Braier e dalle stranianti musiche elettroniche, alla Blade Runner, di Cliff Martinez. La direzione degli attori è maniacale e studiata fin nei minimi dettagli, dalla smorfia che intacca un volto perfetto agli occhi, ovvi specchi dell’anima, continuamente sgranati ai quali, raramente, viene concesso un palpito di ciglia.
Interpretata dalla splendida Elle Fanning, la protagonista Jesse è una beltà che vive di luce propria in una facile metafora con le stelle ed in contrasto con le luci al neon fredde e artificiali che costituiscono l’iconico triangolo, composto a sua volta da tre triangoli, perfezione ed esoterismo, demone a cui la ragazza vende l’anima in una simbolica camminata, andata e ritorno, sulla passerella.
Le fanno da contorno personaggi altrettanto simbolici. L’amico Dean, innamorato di lei, sembra rifuggire la superficialità dello star system ma viene smascherato del suo ipocrita buonismo dal fashion designer interpretato da Alessandro Nivola. La purezza di Jesse è accostata al concetto di verginità. La sua stanza d’albergo, piccola e squallida, metafora di un’intimità corrotta viene violata dalla visita di un puma che racchiude in sé bellezza e ferocia. Keanu Reeves, nel ruolo del gestore del motel, rappresenta invece la paura della penetrazione da parte della protagonista.
Jena Malone è Ruby, truccatrice, quindi personaggio sul confine tra bellezza naturale e posticcia. Ma è molto potente, nel film, anche il concetto di bellezza cristallizzata, tra morte e immortalità. In tal senso, dopo il puma di cui sopra, troviamo un altro felino, un giaguaro impagliato. Ruby si occupa inoltre dell’estetica dei cadaveri ed è protagonista di un atto di necrofilia che ha scandalizzato gli animi sensibili di Cannes. Abbey Lee e Bella Heathcote sono le due modelle invidiose di Jesse. La prima non riesce ad avere successo. La seconda, invece, sta facendo carriera ma al prezzo di molti interventi di chirurgia estetica. Purtroppo le interpretazioni del cast sono gravate da un doppiaggio italiano non all’altezza.
Nonostante l’accattivante estetica visionaria, il film non riesce a trascinare come vorrebbe, rallenta, annoia, si perde in se stesso. La componente thriller-horror, che dovrebbe essere la parte più ludica della storia, vive brevemente solo nella parte finale e il film sembra finito quando mancano ancora quindici minuti di pellicola. E, forse, l’epilogo è la parte migliore, laddove un rigurgito, in senso stretto, di coscienza non lascia scampo nella cinica corsa al successo, mentre i cannibali e gli opportunisti proseguono la scalata.
La contraddizione di Refn consiste nel criticare il narcisismo mentre lui stesso si perde allo specchio contemplando se stesso e la sua bravura con un film autoreferenziale e fin troppo compiaciuto. Se questa è la sua provocazione, riesce sì ad essere irritante ma per i motivi sbagliati e finisce per un essere un ammaliante esercizio di stile che può soddisfare qualche cinefilo dal palato fino ma terrà alla larga il pubblico generalista.