Noè

Pubblicato il 27 Maggio 2011 alle 00:00

NOE’

Autore: Stéphane Levallois
Casa Editrice: Associazione Culturale Double Shot
Provenienza: Francia
Formato: 160 pag., brossura, b/n, 16x 24 cm.
Prezzo: 13 euro
Recensione


Benvenuti nel regno del silenzio, il deserto… Qui un palombaro, un personaggio ossimorico vista l’ambientazione, trascina sulla sabbia, a passi pesanti, una gigantesca arca.

Non si sa se costui sia uomo o donna, e forse non lo sa neppure l’autore Stephane Levallois (del quale vi segnalo anche un libro sui partigiani dal titolo “La résistance du sanglier” che narra, prealtro, la storia di suo nonno). Ma non è importante, perché egli/ella/esso è un simbolo, ed i simboli sono tali perché l’uomo può riempirli a proprio piacimento, come lo scafandro di quest’entità che per me è vuoto, come se fosse l’Agilulfo di un romanzo grafico dal sapore calviniano.

Tutt’altro che appartenente all’immaginario dello scrittore italiano di cubani natali, e molto più consona al surrealismo di Buzzati è l’ambientazione, che graficamente si trova a metà tra le visioni Jiraudiane e l’oniricità di  Katsuhiro Ōtomo.

L’arca è certamente un rimando biblico che, sebbene l’autore lo escluda (nell’intervista esclusiva che troviamo in coda al volume), è palesato dalla scena in cui un bambino viene fatto entrare nel sito di costruzione della stessa solo dopo aver mostrato di portare con sé due scorpioni che apprendiamo essere di sesso diverso.

Anche dell’arca non vediamo l’interno, e potrebbe anche essere un fantasma, un relitto un tempo abitato ed ora non più, un mondo abbandonato, una visione futura della terra post-apocalittica, un monito, una metafora.

Tutto questo conferisce all’opera quella sensazione di vago ed indefinito che la rende intrigante.

Il palombaro/astronauta è figura dell’umanità e l’arca il suo fardello. Egli è solo ed il viaggio non ha apparentemente una meta, ma vale per se stesso, come l’arte.

Ed il fatto che possa non esserci nessuno all’interno della nave dà all’impresa un che di eroico, poiché essa è portata avanti, malgrado le difficoltà, e ben potrebbe essere assolutamente vana.

Altro elemento centrale è il vento con le sue figlie. Questi personaggi femminili, un po’ monache, un po’ meretrici, imprigionate (come, poi?) in delle gabbie, che poi sono dei fari sepolti dalla sabbia, vengono dipinte molto sensuali eppure maligne nei confronti degli uomini, in una visione piuttosto leopardiana della natura ostile e maligna, ma che alla fine lascia aperto un barlume di speranza che non svelo a chi volesse leggere il volume che merita davvero.

Ne sorprende la violenta nudità sotto gli abiti religiosi. Nudità resa ben cruda dallo stile di disegno, che colpisce come il pube in copertina di un’altra opera dell’autore “Le dernier modèle” (Futuropolis 2011).

Tra le dune si muovono poi, anche altri personaggi degni di nota, l’aviatore solitario, il bandito che colleziona oggetti rubati alle sue vittime, la tribù di beduini su alti trampoli che gli consentono di ampliare la prospettiva e scorgere da lontano tempeste, nemici od altri pericoli di sorta; fino ad un gruppo di soldati, dall’appearance molto nazista, dediti alla guerra ed alla barbarie oltre che determinati ad evitare che il protagonista (se così possiamo chiamarlo in un’opera che di protagonisti ne ha molti e nessuno) porti a compimento la sua impresa.

All’inizio ho nominato il silenzio, ed è questo un fortissimo segnale di stile che Levallois dà e che rende l’opera così singolare. Nessun dialogo, nessun suono, nessun pensiero: soltanto una sequenza di vignette che, come in Arzach, ci portano in un mondo sconosciuto, in cui l’uomo e la natura sono in continuo confronto/scontro eppure si intrecciano costantemente. Solo che differentemente da Moebius, qui alla fine di ogni capitolo ci sono delle scritte, poche righe, a volte scorci di dialoghi, altre brevi poesie, o semplici spiegazioni per avere una guida in questo viaggio onirico che così si apre alla comprensione abbandonando l’ermetismo di tutto il resto.

Eppure lo storytelling, la sceneggiatura, sono molto cinematografici, e si ha proprio chiara e netta la sensazione che potesse ben diventare un cortometraggio (settore in cui Levallois è molto dotato: vi suggerisco di guardare Butterfly). Io ho sentito il sapore di “Memories” di Ōtomo, ma non saprei forse dire con certezza il perché. Solo una suggestione, un’immagine che fa aprire dei ricordi, una voce silenziosa.

Se non è questo lo scopo dell’arte quale sarà mai?


Voto: 8

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