CinemaForever #5 – Quentin Tarantino: violenza e catarsi

Pubblicato il 1 Giugno 2016 alle 18:30

Quinto appuntamento con la rubrica di MangaForever preferita dai cinemaniaci! Oggi parleremo del regista/sceneggiatore per eccellenza: Quentin Tarantino.

Da ragazzino sognavo o di fare l’attore o di fare il rapinatore. La rapina come gesto agonistico mi affascina. Nel cinema, beninteso.

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Regista eccentrico e sceneggiatore iconoclasta (ma anche attore niente male) Quentin Tarantino è, prima di tutto, un amante del cinema e un fan dei film. Di ogni tipo, genere e paese di provenienza. Tarantino, e non me ne vogliano i fedeli, è un po’ come Dio: vede tutto, e conosce ogni cosa … che riguardi cinema e film, sia chiaro.

E’ cresciuto ingurgitando i prodotti dell’exploitation degli anni ’70/’80 ai noir a basso budget, dagli spaghetti western di Sergio Leone (e non solo, anche se quest’ultimo è, dichiaratamente, il suo regista preferito) ai film di kung-fu: il giovane Quentin assimila informazioni e tecniche cinematografico non solo dai suoi registi preferiti, e non solo dai migliori, ma anche dai meno talentuosi, imparando da loro come si fa a fare un brutto film – e quindi come evitare di farne.

La sua peculiarità – che poi, negli anni, è diventato lo scopo della sua vita lavorativa – è quella di esaltare le potenzialità del cinema a basso budget, trasformando il b-movie in opera d’arte. L’esagerazione, il pacchiano, la violenza sfrenata, gore, in Tarantino sono elementi talmente smodati, eccessivi, che non si fermano là dove inizia il trash, ma lo travalicano, e fanno il giro completo, tramutandosi in arte.

Spesso i suoi film sono accusati di essere troppo violenti. E’ qualcosa che sapete, per sentito dire, anche se non avete mai visto una sua pellicola. Qualcosa all’insegna del “si dice che”.

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E’ vero, c’è violenza nei suoi film, e ce n’è molta (anche se non sempre). Ma la violenza del suo cinema (l’ormai attestato cinema tarantiniano) è qualcosa di finto, artificiale, irreale. C’è la rappresentazione filmica della violenza, la violenza del cinema, che è diversa da quella reale. Si tratta di estetismo della violenza, un altare barocco che prepara la violenza e la osanna artisticamente, la ammira e poi la prende in giro, se ne fa beffe.

Il sangue che Tarantino ci mostra, fra schizzi e arti tranciati e esplosioni di cervella, non è mai drammatico, ma catartico: a parte The Hateful Eight (forse la sua opera più cruda, che chiude otto spregevoli persone in una casa e ci dimostra quanta ferocia può annidarsi nell’animo umano) il regista sembra quasi voler esorcizzare la violenza, spingendo lo spettatore a riderne.

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Nella scena in auto di Pulp Fiction, ad esempio, quanto è divertente, ogni volta, vedere la reazione di Jackson e Travolta? O il modo in cui De Niro reagisce nel parcheggio del centro commerciale in Jackie Brown? O i discorsi di Brad Pitt, orfano del baseball che in Bastardi Senza Gloria fa dell’uccidere i nazisti il suo nuovo sport preferito, e dell’incidere svastiche sulla loro fronti la sua personale maniera di sfogare la propria vena artistica?

Eppure non si tratta di commedie (e guai a pensarlo). Il suo black-humour non è solo divertente, ma anche profondo: merito di uno stile di scrittura unico, vivace e imprevedibile, e nella struttura delle scene e nei dialoghi fra i personaggi. Personaggi che sono individui sempre, sempre sopra le righe, quasi caricature di persone più che persone reali.

Caricature che parlano e agiscono come persone vere: è il gioco delle parti, nel quale tutto è realistico ma non reale, fittizio ma credibile. Persino le marche di sigarette sono finte nei film di Tarantino, con le celebri Red Apples che ritornano pellicola dopo pellicola.

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Fra split screen, sequenze in bianco e nero, sequenze anime, slow motion, stalli alla messicana, parolacce, (“Quanti cazzi?”, “Una marea…”), l’uso diegetico della musica e delle colonne sonore, movimenti di camera ricercati ma sempre funzionali alla storia e una struttura narrativa che fa dello sfasamento cronologico il suo mantra, Tarantino impregna ogni sua pellicola del suo personalissimo (ed unico) tratto.

Un film di Tarantino non è un film di Tarantino perché c’è il suo nome sopra, è il film stesso che si fa firma dell’autore, diventando un’estensione della personalità esuberante del regista.

Una pellicola tarantiniana risalta agli occhi dell’esperto: è riconoscibile da lontano, come il marchio di McDonald’s lungo l’autostrada.

E gli emulatori del genere tarantiniano – perché di genere si può parlare dato che di genere si tratta ormai – si individuano altrettanto velocemente, vuoi perché venuti dopo la sua ascesa, vuoi perché palesemente influenzati dal carattere exploit e volutamente, ricercatamente trash,  ma indubbiamente inferiori a livello contenutistico e stilistico.

Il suo punto di forza non è tanto la stravaganza della regia, già artistica di per se nella scelta delle inquadrature e nei movimenti della cinepresa, quanto l’assenza programmatica della consequenzialità delle sceneggiature (basti pensare che in Pulp Fiction la vicenda vera e propria si conclude a metà film).

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Sceneggiature che spesso sembrano opere teatrali, composte da scene lunghe e fiumi di parole, troncate all’improvviso da scoppi di violenza casuali ma sistematici.

Nel corso della sua carriera Tarantino ha saputo rimescolare le carte di molti generi cinematografici, che già avevano detto tantissimo prima di lui ma che lui è riuscito a reinventare, se vogliamo, aggiungendo elementi che fino a quel momento avevano caratterizzato altri filoni.

Si potrebbe dire che, se avesse deciso di fare il bar-man, Quentin Tarantino sarebbe stato il migliore nello shakerare insieme tanti gusti differenti, creando ogni volta nuovi cocktail e sapori inediti.

Dopo i crime Le Iene, Pulp Fiction Jackie Brown, che mescolano il noir al commedia nera, ecco Kill Bill, mix perfetto del filone japan kung-fu e dei western all’italiana, Grindhouse: A Prova di Morte, uno slasher/thriller/horror che strizza fortemente l’occhio ai b-movie automobilistici anni ’70, la commistione del genere spaghetti-western a quello della guerra in Bastardi Senza Gloria e i due western atipici Django Unchained The Hateful Eight, quest’ultimo ispirato, a detta dello stesso Tarantino, all’horror La Cosa di John Carpenter.

Spesso, inoltre, la passione per il cinema di Tarantino emerge nelle sue sceneggiature e straripa dalle bocche dei personaggi che le popolano attraverso continue citazioni (e autocitazioni e easter eggs) a film più o meno conosciuti, troppe per essere riportate in questa sede.

E’ un cinema che si rifà al cinema, quello di Tarantino, scegliendo volutamente di non ispirarsi alla realtà. Aggressivo e martellante, sa estasiare e sorprendere, e scorre su un fiume di parole che, quando si fa burrascoso, si tinge di rosso. E ci diverte ogni volta.

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