The Boy and the Beast – Recensione

Pubblicato il 9 Maggio 2016 alle 11:00

Un bambino rimasto solo nel mondo degli umani trova in quello dei mostri una casa, affetto e un (bizzarro) secondo padre che gli insegnerà a combattere il male, anche quello dentro di lui. L’ultimo anime di Mamoru Hosoda (Wolf Children, Summer Wars) sarà nei cinema italiani per un evento speciale.

A parte La Ragazza che Saltava nel Tempo (che del resto è anche l’unico basato su una storia non originale) gli altri film di Mamoru Hosoda hanno tra i temi principali quello della famiglia.

Questo vale anche per The Boy and the Beast, uscito in Giappone nel 2015, accolto benissimo dalla critica e ai botteghini patri.

Protagonisti di The Boy and the Beast sono infatti Ren, un bambino orfano di madre e con un padre lontano che scappa dalla tutela dei parenti per vivere nelle strade di Tokyo, e Kumatetsu, mostro dalle fattezze (e dal carattere) di orso che decide di “adottarlo” e farne il suo apprendista nell’arte del combattimento portandolo a vivere nella realtà parallela di Jutengai, la medievaleggiante città dei mostri.

Il rapporto tra Kumatetsu e Ren (o Kyuta come viene chiamato a Jutengai) non è rose e fiori e i conflitti tra i due sono continui soprattutto per colpa dell’orso, troppo testardo per aprirsi e permettere al ragazzo di capire i suoi insegnamenti.

Con gli anni però le cose migliorano e mentre Kumatetsu si prepara ad affrontare una sfida che potrebbe elevarlo a capo dell’intera Jutengai, Ren deve fare i conti con il suo passato umano, tornando nel mondo che aveva lasciato (dove farà nuove, interessanti conoscenze) e che dovrà salvare da una minaccia che mette a rischio l’esistenza tanto dell’umanità quanto di Jutengai…

Togliamoci subito il dente: The Boy and the Beast è sicuramente il film più debole dei quattro diretti dal 2006 a oggi da Hosoda.

Lo è per una scrittura a tratti (larghi) ingenua, ridondante e un po’ banale, che mescola spunti interessanti come quello sulla paternità con altri molto deboli che o si perdono o finiscono appesantiti da metafore e simboli che ci vengono spiegati più e più volte; il rapporto tra Ren e l’antagonista finale, che più personaggi si premurano di renderci chiaro tre-quattro volte di fila stile Teletubbies, ne è un esempio.

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Se in Wolf Children e La Ragazza che Saltava nel Tempo ci si affidava molto anche al non detto e alla recitazione dei personaggi, qui ogni cosa viene enunciata (anche più di una volta) come se si avesse paura che lo spettatore se la possa perdere.

Questo danneggia soprattutto la storia, trascurata per concentrarsi sul messaggio che dovrebbe passare. Volendo cercare una spiegazione del perché, spulciando i credits si scopre che per la prima volta Hosoda non è stato affiancato alla sceneggiatura dalla veterana Satoko Okudera, che aveva invece curato quella di tutti i film precedenti.

Se però da ascoltare, per colpa dei troppi spiegoni, The Boy and the Beast non è il massimo, da guardare è un vero piacere.

Hosoda conferma di avere un occhio incredibile per l’azione e per le gag fisiche: quando non parlano ma si muovono i personaggi riescono sempre a impressionare, colpire o far ridere lo spettatore (il gran maestro coniglio è un asso in questo).

I combattimenti tra mostri dall’aspetto di orsi e cinghiali fanno veramente percepire la potenza di queste creature a cui un’animazione di altissimo livello dà vita e sono spettacolari, come le catastrofiche sequenze finali ambientate nell’umana Tokyo.

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Il character design (di Yoshiyuki Sadamoto? Lo stile sembra il suo, ma il nome non compare) è molto ispirato, soprattutto quello dei mostri, così come il design dei loro costumi e dei luoghi che abitano e di cui vediamo durante il viaggio formativo di Kumatetsu e Ren degli scorci straordinari.

I film di Hosoda continuano da questo punto di vista ad essere portatori di una modernità e una cura impossibili da trovare negli anime televisivi. Anche quando si impappinano mentre raccontano la loro storia.

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