CinemaForever #3 – Martin Scorsese: l’eleganza intellettuale dell’oscurità

Pubblicato il 18 Maggio 2016 alle 18:30

Il terzo appuntamento con CinemaForever è dedicato all’autore di tanti intramontabili capolavori della cinematografia degli ultimi quarant’anni: Martin Scorsese.

C’è un’oscurità intrinseca in ogni cultura, che non può smettere di ‘prendere’. Un’avidità dalla quale non puoi mai tornare indietro.

Uno dei maggiori esponenti della New Hollywood, Martin Charles Scorsese nasce a New York nel ’42, mentre dall’altra parte del mondo infuria la Seconda Guerra Mondiale.

Per quanto tetra, la coincidenza cronologica è per lo meno affascinante, se consideriamo i temi che il cinema scorsesiano andrà a trattare: gli istinti violenti dell’uomo, fra tutti, ma anche il senso di colpa e la religione contrapposta al desiderio del peccato.

Figlio intellettuale di John Cassavetes (uno dei primi registi indipendenti di Hollywood, celebre per la povertà delle sue produzioni e del realismo contenutistico che le contraddistingueva), ma anche della Nouvelle Vague francese, il cui obiettivo primario era proprio quello di impregnare ogni fotogramma di pellicola col vero, col reale, il tratto di Scorsese è uno fra i più riconoscibili di sempre.

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Al di là dei virtuosismi registici meramente tecnici e sperimentali, ad impressionare è il come la violenza, insita nell’animo dell’uomo, esploda in maniera iperreale sullo schermo (ad impressionare e a inorridire: la allora minorenne Jodie Foster, co-protagonista di Taxi Driver, non poté partecipare alla prima del film per via dei contenuti maturi dello stesso): Scorsese ci mostra di quali atrocità sia capace l’uomo, di quali mostri alberghino in ogni anima, mostri ai quali basta soltanto il giusto incentivo – che può essere la follia, o il desiderio di sopravvivenza, o la smania di raggiungere i propri obiettivi – per emergere.

E poi gli anti-eroi emarginati, spesso protagonisti delle sue pellicole. Personaggi sporchi, marci, per il quale il regista ci spinge a fare il tifo: non solo riflettono la difficoltà di emergere in una vita fortemente pessimistica e che spesso ci è avversa, ma si fanno portatori di una simbologia cristiana, più specificatamente cristologica.

Il cinismo dei personaggi scorsesiani, la violenza di cui sono capaci e che spesso abbracciano, sia essa fisica o psicologica, è il modo con il quale il regista newyorkese, profondamente cattolico, tenta di esorcizzare i suoi demoni: è evidente il conflitto interno, il dramma del suo credo religioso messo alla prova dal male che domina il mondo.

Ma anche la città di New York, croce e delizia del regista, che ritorna continuamente in tutta la sua carriera nelle sue più svariate forme e sotto i più disparati generi cinematografici, fino a quel Gangs of New York (ricordato anche perché punto di inizio del sodalizio con Di Caprio, dopo quello con De Niro) che è un’epopea storica sulle tracce delle origini sanguinarie, del cuore pulsante della Grande Mela.  

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Il suo stile cinematografico è camaleontico e subisce una costante evoluzione (e/o maturazione) durante tutto l’arco della sua carriera: dal tratto documentaristico dei primi lungometraggi si lascia influenzare dal già citato realismo francese (ma anche da quel neorealismo italiano di cui Rossellini, Visconti, De Sica e Fellini si fecero i maggiori esponenti), e grazie alla collaborazione con alcuni fra i più grandi direttori della fotografia (Richardson, Chapman) riesce ad escogitare trovate filmiche barocche sempre innovative e artisticamente stravolgenti.

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Dagli esempi di Toro Scatenato Casinò, impossibile non citare lo straniante effetto creato dal piano sequenza di Taxi Driver, durante la telefonata di Trevis: la macchina da presa si distacca dal protagonista, inquadrando il corridoio vuoto; la regia diventa pratica della sospensione, ed è come se ci tendesse la mano, consentendoci di concentrarci sullo stile del film mentre il film stesso avanza, senza fermarsi.

E’ come se il film (e Scorsese stesso) ci dicesse “Notami, oh pubblico, trascura per un attimo la trama e nota questi particolari virtuosi, manieristici”.

Del piano sequenza il regista statunitense dirà: “Se una scena è lunga, io la allungo, non mi sogno neppure di tagliarla: in questo modo so di dare il tempo allo spettatore di analizzarla.”

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L’eclettismo è traboccante: Scorsese va di genere in genere come un esperto navigatore che attracca di porto in porto, senza disdegnare alcun molo o ormeggio.

Dalla commedia di Alice non Abita più qui (1974) e Re per una Notte (1983), alle pellicole sportive di Toro Scatenato (1980) e di Il Colore dei Soldi (1986), al dramma sentimentale de L’Età dell’Innocenza (1993), ai drammi religiosi L’Ultima Tentazione di Cristo (1988) e Kundun (1997), ai biografici The Aviator (2004) e The Wolf of Wall Street (2013).

Passando sempre per quel thriller/noir/crime che è il suo cavallo di battaglia, e che l’ha reso celebre.

Le chiacchiere da bar degli italoamericani di Mean Street (1973), lo stile di vita di quei-non-proprio-bravi-ragazzi ritratti in Quei Bravi Ragazzi (1990), descrivendo sia la spirale di violenza senza uscita del crimine organizzato (Casinò, del 1995), sia quella psicologica e malata, che affonda nei meandri dell’animo e nella mente (Cape Fear, Taxi Driver, Shutter Island), ma anche il come la corruzione sappia farsi gioco della giustizia, ammanettandola a terra (The Departed) – che è poi un po’ la metafora del povero cristiano circondato da un mondo di malvagi di cui si parlava prima.

Un regista raffinato dall’ineguagliabile senso del ritmo, ora immobile – ma sempre bellissimo, come un bronzo greco – ora scattante, ruggente, ipertrofico.

Neofita sempre entusiasta e pieno di smania, Martin Scorsese ha saputo rinnovarsi e reinventarsi e migliorarsi incrementando la sua esperienza da decano. Ma è anche (e soprattutto) un artista spregiudicato, dall’energia incontenibile, che ha stupito, stupisce e continuerà a stupire.

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