Recensione – La Foresta dei Sogni

Pubblicato il 30 Aprile 2016 alle 20:00

“Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/ ché la diritta via era smarrita”.

Dalle premesse, si poteva pensare che accostare il celebre incipit dantesco al nuovo film di Gus Van Sant (Will Hunting, Elephant, Milk) sarebbe stato quanto mai calzante, e magari il regista del Kentucky a quei versi ci ha anche pensato, durante la produzione de La Foresta dei Sogni (The Sea of Trees). Solo che, a conti fatti, Dante potrebbe sentirsi offeso.

Erano ormai anni che Matthew McConaughey ha ritrovato la nuova giovinezza artistica, dopo una parentesi degenerativa che aveva finito con l’associare il suo bel mascellone a commediacce di bassa categoria. Da The Lincoln Lawyer, Killer Joe, The Paperboy Mud, quindi True Detective e il premio Oscar per Dallas Buyers Club, l’attore texano non ha praticamente più sbagliato. E se vogliamo, neanche in questo film la sua performance lascia a desiderare. Escluso McConaughey, è soltanto tutto il resto della pellicola che non funziona.

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Del resto, Van Sant ci ha ormai tristemente abituati agli sgarri: sembrano lontanissimi i tempi di Restless, o di Gerry, nei quali il dolore e la ricerca interiore veniva trattata in ben altro modo rispetto a questo suo nuovo lungometraggio, che vuole parlare di dolore in modo mistico, spirituale, ma finisce con l’affrontare l’argomento in maniera quasi caricaturale.

Il protagonista si reca in Giappone, nella foresta di Aokigahara, situata alle pendici del monte Fuji. La foresta è tristemente conosciuta col soprannome de “la foresta dei suicidi”, perché ogni anno sono centinaia le persone che da tutto il mondo si recano lì in cerca del posto migliore in cui morire. Ma l’incontro con un uomo (Ken Watanabe), che è lì per suicidarsi e che poi ci ripensa, servirà da contraltare per mettere in prospettiva le sue sofferenze e rivedere la propria decisione.

THE SEA OF TREES

Partiamo dicendo che la cosa più impressionante del film è che la foresta NON è un luogo di fantasia, ma esiste davvero. E ho detto tutto.

Ai flashback il compito di mostrarci il perché il protagonista vuole farla finita, ma non aiuta una sceneggiatura, quella di Chris Sparling, davvero troppo scontata e davvero troppo hollywoodiana, se vogliamo: smielata al limite del grottesco, priva di mordente e incongruente, piena di retorica piatta e inutile. Quasi aberrante, per quanto è ridicola, la battuta su Discovery Channel, che riduce il discorso della differenza culturale fra i due uomini a mero e semplicistico qualunquismo da bar.

Le situazioni in cui i due si troveranno non saranno mai entusiasmanti, non susciteranno mai quella sensazione di ansia che spinga lo spettatore a chiedersi se riusciranno a sopravvivere.

Il colpo di scena finale è un po’ fine a se stesso, e anzi se masticate cinema come il pane quotidiano e di acqua sotto i vostri ponti ne è già passata parecchia, c’è il rischio che siate voi stessi a rovinarvi il film dopo il primo quarto d’ora (a me è capitato, e non posso dire di più).

THE SEA OF TREES

Tutti e tre gli attori principali, diretti in maniera spicciola dal regista, fanno un buon lavoro, per quanto sia naturalmente McConaughey a spiccare: non per via di chissà quale interpretazione magistrale o monologo indimenticabile, ma semplicemente perché è un bravissimo attore che ha tutte le cineprese puntate (male) addosso.

A livello registico Van Sant si limita a svolgere il compitino, e spesso inciampa come se fosse lui a camminare sulle rocce vulcaniche appuntite che spuntano dal terreno della foresta. La scena del litigio in soggiorno fra McConaughey e la Watts è una delle migliori: una lunga ripresa che ho sperato fino all’ultimo non venisse interrotta, ma Van Sant non se l’è evidentemente sentita di mostrarci qualche abilità in più (che in passato ha dimostrato di avere, ma che poi per qualche ragione e a un certo punto ha perso) e ha deciso di troncarla con un controcampo.

La fotografia segue il passo della regia e si limita ad accompagnarla mano nella mano, senza mai cercare di ingranare: qualche immagine più riuscita delle altre ci mostra gli scorci della luce che filtrano nel verde, ma siamo lontanissimi dal più recente film girato in spazi aperti e sconfinati, quel The Revenant di Iñárritu/Lubezki che ne ha di cose da insegnare (se solo Van Sant avesse prestato attenzione alla lezione, ahimè).

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Il tema della deriva dell’uomo abbandonato a se stesso, in stile All is Lost, è ombreggiata, quasi nascosta, seppellita dalla caterva di dialoghi inutili. Mi tornano in mente le critiche indirizzate a The Revenant (perdonate il mio ripetermi, ma il paragone è amaramente calzante) e alla sua quasi totale assenza di battute: ebbene, quel film funzionava (anche, ma non solo) perché aveva capito che era inutile voler far parlare un uomo perduto in una foresta.

Anche quando non era da solo, Di Caprio raramente parlava: semplicemente perché non c’è da parlare in situazioni simili, è molto meglio far chiudere i propri personaggi in se stessi. Qui invece si parla, si parla, si parla, senza in fondo dire mai niente.

La Foresta dei Sogni è un film che vuole trascendere il dolore e parlare di rinascita, ma lo fa in modo sbagliato, descrivendo un dolore troppo fittizio, artificiale. Il primo a perdersi nella selva è il regista, che abbandonato dalla sceneggiatura smarrisce prima se stesso (definitivamente, forse, perché ormai i passi falsi della sua filmografia sono parecchi), quindi il senso del film.

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