Recensione – House of Cards 4 e la politica del terrore
Pubblicato il 21 Aprile 2016 alle 20:00
Tra inganni e perfidie, si è conclusa ieri la quarta stagione del thriller politico più famoso degli ultimi anni.
Queste le parole di chiusura dello spietato, arrivista, amorale, corrotto, assassino e incredibilmente carismatico Frank Underwood, l’ambiguo presidente degli Stati Uniti interpretato da Kevin Spacey che, per quanto odioso, è impossibile da odiare.
Dopo una terza stagione così così, la quarta incarnazione dello show con la quale Netflix ha cambiato le regole della televisione (e questo è, senz’altro, al di là di ogni dubbio) è iniziata alla grande e ha finito ancora meglio. Anzi, peggio: perché le aspettative per il futuro non sono mai state così tetre.
Nel corso dei tredici capitoli di House of Cards 4, la narrazione è andata costantemente verso un’unica direzione: la riaffermazione del potere rappresentato dagli Underwood come coppia, e non come entità separate.
Claire e Frank sono talmente affiatati da essere una cosa sola, e lo sono sempre stati: quando hanno provato ad allontanarsi, hanno iniziato a perdere.
Non a caso la quarta stagione ha dato ampia libertà di manovra a Claire, interpretata alla perfezione dalla glaciale eleganza di Robin Wright (che ha anche diretto quattro puntate): man mano che aumentavano i suoi compiti da First Lady Claire si spingeva sempre oltre, voleva di più, fino ad arrivare ad agognare l’incarico di Vice Presidente.
E, dopo il categorico no di Frank, alla fine anche lui si è convinto. E lei ha smesso di volergli mettere i bastoni fra le ruote.
Perché non esiste un Frank senza Claire, così come non esiste una Claire senza Frank. Si sono fatti da soli, ma insieme. Per anni si sono bastati l’un l’altra. E adesso che siedono sul tetto del mondo, solo agendo insieme possono mantenere il potere.
Il tipo di amore che questi due personaggi dalla spaventosa grandezza condividono è qualcosa che molti faticano a comprendere: per il bene della donna che ama, Frank ha addirittura acconsentito alla relazione extraconiugale con Thomas, perché sa che lo scrittore può soddisfare quei bisogni naturali ai quali lui non può prestare attenzione).
Viene in mente una citazione, presa da uno dei primissimi episodi della serie: “Io amo quella donna. La amo più quanto gli squali amino il sangue”. Ecco, l’essenza degli Underwood sta tutta in quella frase, era già lì che maturava.
E in questa stagione è sbocciata.
I nodi vengono al pettine, okay, ma gli Underwood quel pettine vogliono prenderlo e gettarlo fra le fiamme dell’inferno.
Nella quarta stagione hanno dovuto affrontare: la peggiore lite coniugale della loro storia, un attentato ai danni di Frank, le dispute con la Russia e il presidente Petrov, la concorrenza di un giovane governatore padre della famiglia del Mulino Bianco con l’obiettivo di arrivare allo studio ovale (famiglia del Mulino Bianco solo in apparenza: lo sguardo cinico col quale la serie analizza la politica moderna non salva nessuno), una campagna elettorale condotta da sfavoriti, poi da favoriti, poi di nuovo da sfavoriti, un’inchiesta giornalistica mirata a portare alla luce tutti i crimini insabbiati da Frank e pure il terrorismo, con il rapimento di una famiglia americana orchestrato per permettere la liberazione di un leader jihadista.
Per la prima volta, davanti alle accuse fondate dei giornalisti e alla crisi degli ostaggi che sembra insolvibile, Frank si è piegato davanti all’inesorabilità del suo fallimento. Solo per un attimo, però, solo quel tanto che è bastato per farci credere che la sua marcia di conquista era giunta alla fine. E chi è stata a risolvere i suoi dubbi, a dissipare le sue paure, a trovare una soluzione?
Claire. L’amatissima moglie e compagna, più complice di complotti che amante: e che diabolica, terrificante soluzione quella che ha architettato. Qual è, per una nazione, l’unica cosa più terribile delle accuse di corruzione rivolte a un presidente?
La guerra.
E pur di deviare l’attenzione dell’articolo che svela le malefatte commesse da Frank per arrivare alla Casa Bianca, gli Underwood sono disposti a lasciare che gli Stati Uniti entrino in guerra.
Potrebbero impedirla, ma la accolgono. Anzi, la provocano, la architettano in maniera machiavellica, lasciando che i terroristi sgozzino l’ostaggio americano in diretta nazionale, senza piegarsi alle loro condizioni.
L’ultima scena è talmente potente da un punto di vista filosofico ed emotivo che oltrepassa il genere thriller e affonda quasi nell’horror psicologico. Perché in una democrazia le scelte sono fatte da un leader, ed è il popolo poi a dover affrontare le conseguenze di quelle scelte.
Nel vedere la spietatezza di quel presidente e della sua first lady, nel sentirli pronunciare quelle parole, è impossibile non chiedersi: “E se una cosa del genere accadesse davvero?”.
La qualità tecnica è come di consueto impeccabile: una buona regia, ordinata e aiutata da un montaggio serratissimo, beneficia al meglio di un impianto fotografico elegante e al tempo stesso opprimente, pieno di toni di blu e bianco che trasmettono una raffinata e signorile freddezza.
Parlare degli attori protagonisti sembra inutile: Spacey e Wright a parte, buone le prove del dolce ma scalto Paul Sparks, l’irremovibile e professionale Michael Kelly e l’irreprensibile Boris McGiver. Convincenti entrambi anche i coniugi Conway, interpretati da Joel Kinnaman e dalla bellissima attrice irlandese Dominique McElligott.
All’inizio della stagione ci sono stati presentati come la tipica, piena d’amore e gentilezza famiglia americana, ma col progredire degli episodi abbiamo imparato a conoscerli per ciò che sono davvero dietro i sorrisi di facciata pubblicati sui loro account Twitter: arrampicatori politici, non tanto lei quanto sicuramente lui, a dimostrazione che non esistono dei veri buoni nel mondo della politica.
E infatti, alla resa dei conti, per chi è che continuiamo a fare il tifo, noi?