Aâma di Frederik Peeters, una serie complessa e ricca di contenuti – Recensione
Pubblicato il 16 Marzo 2016 alle 11:20
Si è conclusa Aâma di Frederik Peeters: sarà riuscita la premiata serie francese a rispettare le aspettative?
La serie era arrivata in Italia con molte attese, dopo aver vinto il prestigioso premio di miglior serie ad Angouleme nel 2013. Bao ha deciso di pubblicare la serie con cadenze abbastanza larghe, ma adesso finalmente abbiamo potuto leggere la conclusione della quadrilogia di Peeters, e avere tempo per qualche valutazione complessiva.
Aâma non è una serie facile a cui approcciarsi: la narrazione scelta da Peeters non è esplicita, ma sottile e assolutamente non lineare: nei primi due volumi i due piani temporali, quello di Verloc Nim su Ona(ji) e quello riguardante la storia del suo passato e di sua figlia, si fondono e si intrecciano di continuo.
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Peeters realizza una storia fantascientifica in cui il cuore sono i personaggi: da Verloc, a suo fratello Conrad, alla scimmia robot Churchill, ogni figura viene approfondita, ma per fare ciò Peeters ricorre ad un abbondante uso di dialoghi, il che non rende questa serie, come detto, di facile consumo e lettura.
Ma, tutto sommato, la qualità della scrittura riesce a non rendere la storia farraginosa e spezzettata: Peeters dosa saggiamente riflessioni sul nostro futuro, ironia e misteri: in questo modo si ha sempre l’impressione di leggere qualcosa di nuovo rispetto alla pagina prima.
Già, misteri: Aâma è pieno zeppo di misteri: dall’essenza del progetto Aâma stesso, al passato e alle motivazioni dei vari personaggi, alle intenzioni della Muy-Tang corporation, a cosa sia successo nel gruppo di scienziati sul pianeta Ona(ji).
Proprio il pianeta, come in Lost, diventa una sorta di isola misteriosa, una sorta di contenitore di misteri e complotti. Ma i misteri, in Peeters, non sono mai inseriti fini a se stessi, ma piuttosto sembra che ognuno di essi sia quasi un pretesto per causare o rivelare uno dei drammi interiori che affliggono i vari personaggi.
Si, perché la fantascienza di Peeters è quel tipo di fantascienza dove la tecnologia diventa quasi metafora del disagio e dei conflitti personali. Esiste una teoria della critica cinematografica che analizza alcuni film, come Crash, ma anche film di genere come l’horror, a partire dalla loro capacità di comunicare con gli spettatori attraverso il corpo, non lo sguardo.
In Aâma il corpo è al centro della storia: quello ormai devastato di Verloc, quello puro di sua figlia, quello inquietante ed antropomorfo di Churcill, quel corpo che Aâma , nell’ultimo volume, andrà ad infestare ed elevare a divinità.
Invece di puntare su astronavi che viaggiano a velocità improbabili (sempre belle ed apprezzabili, non fraintendetemi), Peeters vuole raccontare una fantascienza che, se in alcuni aspetti è ovviamente ancora distante, in altri è molto vicina al nostro tempo: i corpi sono ormai già luogo di esperimenti scientifici, e Peeters inonda Aâma di un certo pessimismo: potenziando i nostri sensi, in realtà ci allontaniamo dalla realtà, e soprattutto dai nostri cari che ci stanno intorno.
Non sono sicuro di condividere questa tesi, ma di certo apprezzo la sottigliezza con cui Peeters l’ha inserita nella storia, senza spiegoni ma incorporandola coerentemente con le vicende di Verloc.
Spiegoni: non aspettatevene nel quarto volume. Alcune vicende verranno risolte, altre forse si perderanno un po’ per strada: Peeters conta nell’intelligenza del lettore per mettere insieme i pezzi, usando uno stratagemma apprezzabile ma che talvolta può essere anche un pretesto per non chiudere tutte le linee narrative precedentemente viste.
Tutto sommato però il finale, per chiunque abbia seguito con attenzione la storia, è chiaro nel suo essere sintetico. A me ha ricordato il finale di Evangelion (quello della serie originale disegnato malissimo, si) almeno nella sua idea di base: non far vedere cosa sia successo alla fine, ma mostrarne delle brevi conseguenze puntando sull’intelligenza del lettore.
E in effetti, in un tipo di fantascienza così complessa e studiata, che sfocia in un quarto volume decisamente psichedelico ed esagerato ,(e non come al solito per un sogno del protagonista ma, per una volta, per una realtà che diventa lei stessa psichedelica) sarebbe stato incoerente ricorrere ad un finale verboso e chiaro.
Le vicende di Verloc, che come il Cooper di Interstellar attraversa l’universo per amore, funzionano anche perché disegnate e colorate benissimo.
Lo stile di Peeters è di una semplicità studiata che funziona in tutto, dal rappresentare i personaggi e, come detto, i loro corpi tormentati, fino alle quasi esagerate vicende del quarto volume, dove ormai la fisica è in secondo piano e conta solo la volontà di stupire, sia del protagonista che dell’autore stesso.
I colori variano spesso, ed ho apprezzato lo stacco cromatico dal pianeta Ona(ji) e i suoi colori accessi e senza regole, rispetto al pianeta delle vicende passate di Verloc, dove ogni colore e ogni tavola era sotto una malinconica e opprimente ombra.
I primi tre volumi, tutto sommato, mantengono un’impostazione delle vignette quasi regolare, tranne quando ci addentriamo nella mente di Verloc, mentre nell’ultimo volume la potenza di Aâma è tale da andare oltre ogni limite, compreso quello delle vignette e della pagina stessa.
Insomma, Aâma è una grande serie: non è perfetta, perché forse non è riuscita a dar seguito a tutte le linee narrative che si era promessa, e nel quarto volume si lascia un po’ andare oltre i limiti perdendo così, appunto, qualche filo della storia.
Potrà capitare di pensare, a me è successo, che il progetto Aâma stesso fosse una sorta di MacGuffin per parlarci di Verloc e del suo mondo, togliendo così un po’ di identità al concept della serie stessa.
Ma, a prescindere da queste considerazioni, è una serie importante e che regala momenti di pura meraviglia. Soprattutto se si ascolta il consiglio che mi diede Michele Foschini quando, a Milano, comprai il primo volume della serie alla Bao Boutique: leggere la serie dopo aver bevuto un paio di bicchieri di vino a stomaco vuoto.