Legend, il gangster movie fumettistico – Recensione

Pubblicato il 7 Marzo 2016 alle 08:00

Cosa c’è di più rivisto, ritrattato, ritopizzato del gangster-movie? E ancora di più del gangster-movie a sfondo familistico?

Tuttavia Legend del regista Brian Helgeland (Oscar per la sceneggiatura di L.A. Confidential, quindi un veterano del genere) riesce a dare la sua impronta originale ai topoi del genere.

Nella Londra degli anni Sessanta, ricostruita come una Gotham City in versione retrò, viene messa in scena la biografia (già affrontata in un film del 1990, The Krays-I corvi, di cui questo film è il remake) dei gemelli Kray, spietati gangster di quel tempo che misero su un impero milionario grazie a un casinò, frequentato dalle più grandi star del jet-set all’epoca, che in realtà serviva da maschera per i loro loschi traffici.

Il tema principale del film, che segue l’ascesa e la caduta del loro impero del crimine secondo i canoni propri del genere, è quello del rapporto tra questi due gemelli, così simili eppure così diversi tra di loro: Reginald (Reggie) è elegante, estroverso e abile calcolatore, uno che ci sa fare, soprattutto con le donne; Ronald (Ronnie) è invece, schizofrenico, paranoide, introverso e con tendenze omosessuali, oltre al fatto che è estremamente brutale e violento, cosa che spesso crea non pochi problemi per gli affari dei due fratelli.

Due personalità molto diverse da rischiare sempre l’implosione. Ma nonostante tutto il loro legame è sempre più forte, forse perché l’uno è il complementare dell’altro e, in fondo, non riuscirebbero a fare a meno l’uno dell’altro (il contrario dei Corleone, insomma).

E qui vediamo il primo merito di questa pellicola che va tutta alla recitazione immensa di Tom Hardy, uno degli attori più sottovalutati di sempre (vedi la recente premiazione degli Oscar), che da Bronson in poi non ha mai sbagliato un ruolo o un’interpretazione.

Qui si supera interpretando entrambi i gemelli Kray dimostrando una versatilità impressionante nel ricalcare i loro diversi tic, le loro pose differenti e soprattutto la diversa personalità. A ciò si aggiunga un cast eccezionale di supporto che comprende Emily Browning, nei panni della moglie di Reggie, e il detective-antagonista (verrebbe da dire il “cattivo” ma non è il caso) Christopher Eccleston ed ecco che il film raggiunge vertici di elevata qualità a livello di recitazione.

Ma è soprattutto la regia di Helgeland che riesce a dare ritmo alle interpretazioni con il suo stile di regia sopra le righe. la violenza è sempre presente nel film dall’inizio alla fine, ed è una violenza frenetica, compulsiva, data da inquadrature spesso accelerate unite a lunghi piani-sequenza.

Ma proprio grazie a questo stile barocco e compulsivo, che sfocia nel grottesco (spesso abbiamo dialoghi e trovate al limite del pulp tarantiniano) riesce a distribuire la violenza in maniera uniforme e a farla sempre apparire esagerata in modo da creare un distacco con lo spettatore che riesce a godersi scene e dialoghi senza venirne turbato.

Si tratta di un gangster molto “fumettistico” che si distacca dalla patina documentaristica e realista che spesso questo tipo di pellicole assumono.

Qui la violenza appare speso come un pretesto per scene spettacolari o per risaltare la performance attoriale di Hardy. Forse un po’ troppo forzato se vogliamo, ma comunque di grande impatto per il pubblico che restituisce una violenza da New Hollywood, quindi paradossalmente più “realistica” di tante altre proprio perché ci restituisce lo spirito di quegli anni (i “gloriosi” anni 60) molto celebrati oggi ma che nascondevano spesso il marcio dietro una patina di rispettabilità (parliamo ovviamente di Reggie).

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Un film originale che rinnova il genere gangster-movie con spettacolarità e autoironia tipicamente british, sicuramente una delle sorprese maggiori del periodo post-Oscar.

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