Dylan Dog n. 354: Miseria e crudeltà – Recensione
Pubblicato il 8 Marzo 2016 alle 18:59
Un misterioso serial killer noto come il Fantasma dei Vicoli semina la morte tra i senzatetto londinesi. Dylan Dog decide di indagare sul caso coadiuvato dall’amica Rania, detective di Scotland Yard. Durante l’autopsia su una delle vittime, il coroner trova un rubino birmano usato dall’assassino dal quale è stata cancellata la scritta “Paupertas Malum”, ovvero “La Povertà è il Male”. Dylan dovrà così infiltrarsi tra i senzatetto della città nella speranza di risolvere la situazione.
Proprio un anno fa, nel marzo 2015, Gigi Simeoni entusiasmò i lettori di Dylan Dog in veste di sceneggiatore e disegnatore de Il fumo della battaglia, n. 343 della serie regolare, che reggeva su una storia sottilmente ambigua, in buon equilibrio tra la componente investigativa e le divertenti dinamiche sovrannaturali. Già il mese successivo, però, l’autore bresciano mancò il bersaglio con Il sapore dell’acqua, una detective story piuttosto convenzionale che non veniva salvato neanche dai pur interessanti disegni di Giorgio Pontrelli.
Gli stessi difetti si riscontrano in questa nuova sceneggiatura di Simeoni tradotta dalle matite di Emiliano Tanzillo. La suggestione principale della vicenda non è affatto una novità. Abbiamo visto Dylan trasformarsi in un senzatetto in …E cenere tornerai, recente, maiuscola prova metalinguistica della Barbato. L’indagatore dell’incubo ha inoltre visitato il mondo dei clochard londinesi nell’indimenticabile Il marchio rosso di Tiziano Sclavi.
La narrazione scade fin dalle prime pagine in una retorica tanto condivisibile quanto risaputa e si passa subito alla scena di un omicidio come in un banale episodio di CSI. Dylan viene trascinato nel caso in maniera piuttosto pretestuosa ed è chiaro fin da subito che non ci sia alcun elemento sovrannaturale.
Le dinamiche investigative sono piuttosto macchinose, gravate da una sovrabbondanza di dialoghi, spiegoni e controspiegoni, priva di un vero motore emotivo. Tutti i comprimari, a partire da Rania, sono solo pedine funzionali. Pochissimi schizzi di splatter, azione ridotta all’osso ed eros totalmente assente. Neanche a metà storia è possibile intuire chi sia l’assassino.
Efficace l’atmosfera fuligginosa e angusta, tra ombreggiature sfumate e contorni sfuggenti, fornita dalle chine di Tanzillo a supporto di un tratto solido e realistico, magistrale soprattutto nella resa delle fisionomie minuziosamente dettagliate e potentissime sul piano espressivo. La resa estetica non è sufficiente però a salvare le sorti di un giallo di maniera che non riesce mai ad assumere i connotati di un incubo surreale.