Room – Recensione

Pubblicato il 2 Marzo 2016 alle 18:00

Con la sua toccante performance, Brie Larson ottiene la sua prima vittoria all’Oscar come attrice protagonista. Room non si limita però a una singola interpretazione, al fianco dell’attrice troviamo un giovane e bravissimo Jacob Trembaly sostenuti da una regia intima e una sceneggiatura complessa  nella sua semplicità.

Il mondo del piccolo Jack si limita a una piccola stanza in cui vive con sua madre Joy, la quale è stata rapita molti anni prima dal vecchio Nick. Le giornate scorrono tutte uguali, senza la possibilità di uscire o contattare il mondo fuori.

L’unico spiraglio sulla realtà è una finestra sul tetto dal quale si può vedere il cielo.La giovane madre ormai disperata cerca un modo per fuggire da quella prigionia con l’aiuto del figlio.

Il film si divide in due blocchi principali, dove la seconda parte perde un po’ di smalto, unendo in modo non perfetto le varie scene che risultano a volte sbrigative.

Quando gli spazi si ampliano anche la storia tende ad allentarsi. Questo rimane comunque un piccolo difetto secondario di una pellicola solida, con un’ottima regia e degli attori all’altezza del loro ruolo.

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Non ci viene quasi mai mostrata la violenza subita da Joy ma riusciamo a intravederla tra le espressioni, gli sguardi, le emozioni che scaturiscono da un’interpretazione a volte dosata, a volte più libera per esternare il suo sfogo interiore che non risulta mai fuori luogo.

Brie Larson è una madre protettiva ma allo stesso tempo rigida, una donna che deve insegnare da sola cosa sia il mondo al proprio figlio. L’attrice riesce a farci capire quello che pensa e prova senza che ce lo dica.

Il punto di vista principale è invece quello del figlio, lui conosce solo quella stanza e quello è il suo mondo, gli oggetti sono i suoi amici e non riesce a immaginare cosa ci sia oltre quella parete, quella è la sua realtà.

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La stanza è la caverna di Platone, Jack vede solo le ombre del mondo, vede una realtà 2D trasmessa in televisione. La mente non riesce a immaginare oltre ciò che vede, quella stanza è anche la limitatezza della condizione umana. Joy ha il compito di svelare la realtà fino a quel momento coperta da un muro.

L’unico modo che abbiamo di conoscere il mondo è attraverso i nostri sensi. Il regista Lenny Abrahamson ci fa provare direttamente le sensazioni di Jack, delle perfette inquadrature in prima persona ci fanno vedere attraverso i suoi occhi, la vista è il primo approccio che abbiamo sul mondo fuori.

Possiamo vedere attraverso delle fessure, tra i capelli avanti agli occhi, possiamo rimanere abbagliati. Poi arrivano gli altri sensi, sentiamo il tocco leggero del piede su un pavimento, sentiamo i suoni del mondo, i sapori e gli odori di tutto ciò che ci circonda.

Le pareti che ci circondano però non sono solo fisiche, spesso siamo rinchiusi anche quando siamo liberi. Queste pareti apparenti sono i giudizi di chi non riesce ad accettare la verità e che deve distogliere lo sguardo, di chi parla e punta il dito senza conoscere la situazione. A volte le pareti che ostacolano Joy sono i suoi stessi pensieri, le sue scelte, i rimpianti o rimorsi.

La sceneggiatura fa un incredibile lavoro, le parole dei voice over di Jack sono semplici ma efficaci, e la storia riesce a lavorare su più piani di lettura, il primo più fisico riguardo la prigionia di due persone da parte di un mostro, il secondo più interiore ovvero il limite dell’uomo con gli altri e il mondo esterno.

La telecamera a volte si avvicina ai volti, ci fa sentire rinchiusi nell’inquadratura rendendo claustrofobica la stanza, altre invece riesce a sorvolare sopra gli spazi regalandoci immagini dolci e poetiche di oggetti comuni. La fotografia tende a una scala di grigi, rendendo l’immagine ancora più fredda e isolata.

Le doti di Brie Larson sono state esaltate da questa pellicola, regalandole probabilmente un futuro da protagonista nei prossimi premi. Stupefacente l’interpretazione di Jacob Tremblay che a soli 10 anni riesce a rendere il personaggio e i suoi pensieri come se fosse un attore di lunga data.

L’alchimia tra i due è perfetta, naturale, di vero amore. Quell’amore che forse è l’unico modo per riuscire a liberarsi dalla prigionia.

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