Perfetti sconosciuti – Recensione

Pubblicato il 1 Marzo 2016 alle 15:40

Paolo Genevose, dopo una serie di pellicole rigorosamente più “leggere”, porta questo film al cinema per porre agli spettatori una domanda dall’incipit Cosa succederebbe se…, lanciando un film-sfida dai tratti comici e drammatici al tempo stesso.

Il lungo arnese era l’invenzione “rivoluzionaria” nonché il pretesto, per il professor Hubert Farnsworth in Futurama, per lanciare uno degli episodi tematici di maggior successo della serie creata da Matt Groening: il gioco del se fosse in cui si immaginavano le conseguenze che avrebbero coinvolto i personaggi partendo da un presupposto di base talvolta assurdo.

Perfetti sconosciuti adotta quasi il medesimo schema e utilizza il pretesto di un gioco originale per raccontare le reazioni di un gruppo di coppie che si riuniscono per una cena tra amici.
Il film comincia presentandoci velocemente le coppie di amici in questione impegnati in situazioni di vita quotidiana poco prima di recarsi alla cena.

Rocco ed Eva (Marco Giallini e Kasia Smutniak) sono un chirurgo plastico e una psichiatra, con una figlia di sedici anni alle prese con le sue prime vicende amorose che causano un momento di conflitto prima della cena.
Lele e Carlotta (Valerio Mastandrea e Anna Foglietta) sono la coppia più anziana con due figli e la madre di Lele, la quale vive in casa con loro.

Cosimo e Bianca (Edoardo Leo e Alba Rohrwacher) sono la coppia più giovane, novelli sposini, i quali hanno appena iniziato a provare ad avere un figlio.
Peppe (Giuseppe Battiston) è l’unico scapolo del gruppo di amici, il quale anche se aveva annunciato che avrebbe portato la nuova fidanzata alla cena per farla conoscere ai suoi amici, arriva da solo poiché quest’ultima si è ammalata.

Appena tutti si siedono a tavola è Eva, riferendosi allo smartphone, a far notare una sacrosanta verità moderna: “Qua dentro ci abbiamo messo tutto! Questo qua ormai è diventata la scatola nera della nostra vita!”
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D’altronde anche lo slogan della pellicola “Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata, una segreta” va palesemente a parare sul fatto che tutti abbiamo dei segreti, a volte così pericolosi e celati che potrebbero mettere in discussione persino la relazione più stretta ed affidabile.

Allora viene proposto il (divertente?) passatempo della serata: posare sul tavolo ognuno il proprio telefonino e per tutta la durata della cena mettere in viva voce qualsiasi chiamata e leggere e mostrare a tutti gli invitati qualsiasi messaggio o notifica si riceva.

Facile immaginare che le coppie tremano per ogni chiamata o messaggio alla luce del sole.
Anzi, le scappatelle e i potenziali partner nascosti costituiscono solo la punta dell’iceberg di relazioni costruite su bugie, di conflitti irrisolti o di faccende tenute nascoste.

Le coppie cominciano a scricchiolare una dopo l’altra e l’atmosfera ansiosa che perdura per l’intera proiezione (utile ad impedire allo spettatore di sprofondare nella sua poltrona), diventa a tratti pesante e spesso la battuta comica, recitata da qualcuno dei personaggi, appare essenziale per smorzare la tensione e per non far sentire lo spettatore imbarazzato per i protagonisti, quasi come se si trovasse a cena assieme a loro.

La regia è magistrale. Gli stacchi di camera repentini, nel corso della cena, danno l’illusione di un piano sequenza e fanno credere al pubblico che davvero tutte le vicende si svolgano in quel momento e davanti ai propri occhi. Come lo sguardo di un commensale, la regia passa da un volto all’altro, enfatizzando ogni squillo dei telefoni (divenuti i mostri/cattivi della pellicola) e scandendo il trascorrere del tempo con l’inquadratura di orologi sparsi per tutto il film.

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Alla fine del film, come era facile immaginare, tutte le coppie sono sfasciate: chi per una relazione segreta, chi per messaggi bollenti, e anche il rapporto amicale che legava tutti i personaggi si rivela più fragile di come era inizialmente apparso e persino un amico gay forse non era così facile da accettare nonostante l’atteggiamento moderno ostentato pubblicamente da tanti individui.

I dialoghi e le interpretazioni attoriali sono pregevoli, così come quasi tutta la sceneggiatura.
Unico neo, se proprio bisogna cercare il pelo nell’uomo, è rappresentato dal monologo di Peppe verso il finale del film.

Se infatti la pellicola si era, fino a quel momento, contraddistinta per un estremo realismo nelle reazioni e nei discorsi, il monologo moralista del personaggio forse stona un po’. Questo non perché non dica cosa vere, ma poiché non è verosimile che tutti i presenti, sebbene provati dalla serata, lo lascino predicare in silenzio e gli permettano una teatrale uscita scenica in un contesto in cui gli amici si conoscono da quando erano bambini.

Forse può anche essere considerato presuntuoso il precetto per cui tutti debbano nascondere dei sordidi segreti, l’uno verso l’altro.

Il regista però sfugge un po’ all’accusa di fare di tutta l’erba un fascio comprendendo anche un protagonista con quasi nessun segreto (talmente superficiali da poter essere considerato l’unico onesto di tutta la cena), il quale però esce dal gioco comunque danneggiato, in quanto “cornuto” senza neanche venirne a conoscenza, al contrario dello spettatore.

Passiamo adesso alla fase per cui si esce dal cinema parlando non solo dell’idea base del film (il gioco del telefonino), ma anche su quale sia stato il vero finale, cercando di capire cosa fosse reale di quello che si è visto.

Infatti dalla sala si può uscire soddisfatti in quanto il finale lascia credere che tutto quello che è stato narrato non sia mai successo: la proposta del gioco è stata rifiutata e le coppie sono tornate alle proprie abitazioni con i loro segreti ancora salvi.

La scelta di liberare dall’ansia gli spettatori e regalare un finale liberatorio è sicuramente accettata dalla maggior parte del pubblico in sala.

Eppure vi sono degli elementi che potrebbero far intuire una lettura alternativa di quel finale: il gioco del se fosse non è accaduto nella prima parte del film, ma in quella finale!
E’ forse il finale liberatorio a non essere vero, a costituire un’ipotesi di ciò che si sarebbe verificato se quel gioco spietato non fosse mai stato messo in atto.

Da quali elementi si può dedurre ciò?
Innanzi tutto dall’anello nuziale lanciato e lasciato da uno dei protagonisti per significare che il suo matrimonio è da considerarsi finito.
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L’inquadratura in primo piano della fede sul tavolo che gira fermandosi, ricorda difatti molto la trottola di Inception con cui il protagonista riusciva a capire se si trovava ancora nel sogno: se la trottola smetteva di girare voleva dire che era tornato alla realtà.
Stessa utilità potrebbe avere l’anello per lo spettatore.

L’anello smette di girare, l’inquadratura lo mostra chiaramente, quindi tutto ciò che abbiamo visto è vero. Sarà il resto ad essere un gioco del se fosse, una realtà che non si è mai verificata.

Un altro elemento indiziario è l’applicazione per smartphone posseduta da uno dei protagonisti il quale, in seguito ad una notifica giornaliera casuale, è costretto a svolgere degli esercizi per perdere peso dovunque si trovi.
Durante la cena questa applicazione suona così che Peppe è costretto ad eseguire gli esercizi. Uno dei protagonisti obietta che si tratta di un’applicazione fastidiosa in quanto potrebbe suonare anche la notte e quindi consiglia all’amico di spegnere il telefonino quando dorme.

Peppe risponde che se squillasse anche la notte dovrebbe alzarsi e svolgere il compito richiesto, facendo capire che fino a quel momento non è mai accaduto (in quanto è inverosimile che l’applicazione non tenga conto della fascia oraria o che davvero Peppe permetterebbe all’applicazione di rovinargli il sonno lasciando il telefono acceso).

Il film si chiude proprio focalizzandosi su questo aspetto. Nella seconda realtà narrata Peppe è costretto a fermarsi mentre si trova alla guida al ritorno dalla cena, quindi nel cuore della notte, per eseguire gli esercizi ordinati dalla suoneria dell’applicazione. Per cui in quella seconda realtà è normale che l’applicazione squilli a quell’ora tarda e che il telefono di Peppe sia acceso. Anzi forse non era la prima volta. Completamente il contrario di quello raccontato nella prima realtà.

Si può certamente disquisire a lungo su quale sia stato il reale intento del regista, ma spetta solamente allo spettatore l’ultimo verdetto. La decisione finale di credere alla prima o alla seconda realtà, di scegliere fra i due mondi paralleli.
Sicuramente però un film che induce in piacevole confusione chi assiste alla proiezione è sintomo di una pellicola innovativa e inappuntabile.

In conclusione, il fatto che sia stata più venduta all’estero l’idea originale alla base della trama, dove paesi come Spagna e Giappone hanno richiesto i diritti per un remake, piuttosto che la pellicola stessa, sta a testimoniare che ciò che fa parlare di più di Perfetti Sconosciuti sia il soggetto rispetto alla sceneggiatura.

Ciò non toglie che il film sia comunque stato interpretato magistralmente da sette dei migliori attori italiani in circolazione (da segnalare soprattutto la prova di Valerio Mastandrea), con una regia d’autore e dei dialoghi molto ben scritti.

Era da tempo che, a seguito della visione di un film italiano, non avevo voglia di far partire un applauso alla fine della proiezione in sala. Per cui applausi!

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