Il caso Spotlight – Recensione

Pubblicato il 26 Febbraio 2016 alle 15:20

Basato sui reali fatti di cronaca avvenuti a Boston a inizio del 2000, Il caso Spotlight regge per tutti i suoi 120 minuti grazie a una regia minimale di Thomas McCarthy, un solido cast e la scrittura pulita di una precisa sceneggiatura.

Nel 2001 arriva al Boston Globe il nuovo direttore Marthy Baron che assegna al piccolo gruppo di giornalisti d’inchiesta, chiamato Spotlight, il difficile compito di svelare cosa si nasconda dietro i casi di abuso sui minori avvenuti presso la diocesi della città.

Inizia un tortuoso percorso alla ricerca della verità, scontrandosi con documenti nascosti, avvocati senza scrupoli ma soprattutto la paura e il timore delle vittime.

La sceneggiatura non mette al centro dell’attenzione la pedofilia, non vuole scandalizzare lo spettatore, non cerca la lacrima facile. Non vuole nemmeno porsi troppe domande sui motivi che si celano dietro questo comportamento umano.

Quello che ci propone invece è una storia di giornalisti, si focalizza sul loro lavoro, sulle indagini, mostrandoci ciò che c’è dietro un articolo.

Inizialmente scettici sul compito loro affidato, pian piano che la verità viene a galla, esce anche l’umanità del gruppo Spotlight che si accorge di avere tra le mani un caso forse più vasto di quello che si potesse immaginare.

Ci si domanda come ciò possa esser successo, perché in passato non si era data importanza alle poche testimonianze.

Il maggior pregio del film l’aver preso i fatti reali e averli plasmati alla perfezione su tutti i membri del cast, composto da Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber e John Slattery. Ognuno ha il suo compito, non vediamo gli attori ma vediamo solo i ruoli che interpretano alla perfezione.

Negli ultimi anni sono uscite molte pellicole corali, Il caso Spotlight si contende l’Oscar con un altro film simile, La grande scommessa.

Ma se in quest’ultimo caso ogni attore cerca di esaltarsi tra gli altri, in Spotlight nessuno ”sovrarecita”, lavorano insieme in modo coeso differenziandosi allo stesso tempo in mezzo al gruppo.

Tale equilibrio è dovuto alla perfetta direzione degli attori del regista Thomas McCarthy. La regia è minimale, non cerca virtuosismi ed esercizi di stile, in modo da non togliere l’attenzione dalla storia.

Questo lavoro così preciso però è anche il grande limite del film. Lo spettatore guarda la trama e i personaggi quasi in modo staccato, riuscendo poco a empatizzare con quello che vede, limitando le emozioni.

C’è il rischio che se la pellicola avesse parlato di un altro tipo di scandalo, ne avrebbe giovato forse meno in termini di riuscita e visibilità.

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