L’ultima parola, la vera storia di Dalton Trumbo – Recensione
Pubblicato il 20 Febbraio 2016 alle 18:00
Dopo le avventure con Godzilla, Bryan Cranston torna sul grande schermo per offrirci l’incarnazione di un personaggio americano raccontato in un libro.
L’Italia ha già assaporato mille volte la rapsodia di fili rossi che si dipanano dietro le quinte dell’industria cinematografica hollywooodiana, e sembra che la salsa anni Cinquanta sia di moda su piccoli e grandi schermi di tutta la contemporaneità.
Con questa recensione cerchiamo di capire se Walter White è ancora vivo sotto la maschera dell’attore che l’ha interpretato, che cosa ha da dire la vera storia di Dalton Trumbo al nostro paese e perché Jay Roach ha deciso di raccontarcela con una pellicola proprio nel 2016.
La storia di Dalton Trumbo vuole seguire il solco tracciato dall’uomo che c’è stato dietro la penna e dietro i microfoni americani. Per chi non la conoscesse (e non avesse letto il libro, o non fosse americano, o non avesse l’età giusta per averne avuto notizia a quei tempi), Dalton Trumbo è stato uno dei più prolifici sceneggiatori del cinema moderno, uno scrittore eclettico e vivace che ha saputo reinventare il cinema e consegnare al mondo intero dei veri capolavori.
Sfortunatamente aveva anche delle convinzioni politiche forti, in un momento storico in cui bisognava stare dalla parte giusta del fiume e cantare le canzoni di Natale scritte dallo zio Sam.
Dalton Trumbo (personaggio storico) non ci sta, e alle minacce perpetrate dalla Commissione contro le Attività Antiamericane decide di rispondere. Gli anni che seguono sono travagliati e bui, i colleghi di Trumbo finiscono per essere interrogati davanti alla Corte e perdono il lavoro.
Il nostro eroe perde la sua poltrona, viene tradito dai suoi amici e finisce davanti alla Corte come gli altri impiegati sospettati di affiliazioni con le ideologie comuniste. Dalton Trumbo allora decide di non rispondere alle domande che gli vengono fatte, e questo gesto scatena il pubblico sdegno. Risultato: viene condannato a scontare qualche mese di carcere.
Il caso non è da poco, perchè Trumbo era una persona rispettata della società di Hollywood, un uomo importante e con un lavoro molto chiacchierato e fonte di guadagno per molte persone. Dopo l’esperienza da galeotto la sua vita cambia ma il suo impegno politico e la sua tendenza al sacrificio per i propri ideali resta immutata, rendendo Trumbo un uomo tutto d’un pezzo.
Ci sono molti elementi che possono essere discussi di questa pellicola, a partire dall’interpretazione di Bryan Cranston. Si può impiegare un fiume d’inchiostro solo per commentare il ventaglio di attori che sono stati scelti dal direttore del cast per supportare l’impresa bellico/politica del personaggio di Trumbo sullo schermo; oppure si potrebbe passare qualche tempo a tessere le lodi di una colonna sonora pressoché assente.
Ma in questa sede ci è consentito soltanto di prendere il film nella sua globalità e di farne il punto per cercare di capire se sia un’impresa ben riuscita oppure un imbarazzante flop non migliore di tanti altri biopic che si possono reperire al videonoleggio.
Molti hanno accusato al film un problema di sceneggiatura. Dato che non possiamo dilungarci su altri aspetti della pellicola, ci sembra giusto notare che la reazione di pubblico e critica è stata forte soprattutto proprio nei confronti della sceneggiatura, quando il film racconta la storia di un professionista di questa materia.
Il critico cinematografico serio e lungimirante non si lascia sedurre dal bollettino numerico degli incassi al botteghino, ma c’è più di una ragione per dubitare della loro poca importanza. Gli incassi italiani di questo film sono stati miseri e riprovevoli, e in madrepatria non hanno saputo raggiungere nessun livello significativo.
Non stiamo parlando dei blockbuster di Michael Bay, quindi si potrebbe passare sopra a un dato come questo e classificarlo come “trascurabile”, ma la presenza di Bryan Cranston e la sua prestazione da nomination agli Oscar di quest’anno dovrebbero impensierire.
Come è possibile che l’amatissimo professore di chimica del New Mexico conosciuto in tutti i quartieri più malfamati di Albuquerque con il soprannome di “Heisemberg” non abbia trascinato più di qualche migliaio di persone a staccare il proprio biglietto d’ingresso?
Il film di Roach procede silenziosamente una scena dopo l’altra per appena due ore, e non pare né troppo lungo né troppo corto per ciò che vuole raccontare.
Bryan Cranston tiene la scena da solo e non divide il ruolo da protagonista con nessuno; la colonna sonora si rifiuta di accompagnarlo, e le boccate di sigaretta ripetute davanti alla telecamera sono condotte perlopiù in completo silenzio e assoluta solitudine.
La famiglia stessa di Dalton Trumbo non sembra avere un ruolo rilevante nella sua vita, eccetto quando viene trasformata in una società di consegne pacchi a domicilio. Spicca tra tutti il momento chiave (e tanto atteso) della reazione indispettita di chi si è fatto usare allo scopo di realizzare la fortuna del capofamiglia.
Dalton Trumbo rischia di essere lasciato da moglie e figli se non cambia atteggiamento, se non smette di mischiare alcolici e farmaci e se non stacca ogni tanto dal lavoro per spegnere le candeline sulla torta di compleanno della figlia adolescente.
Nonostante proprio questa fantomatica adolescenza sia stata sradicata dalle vite dei figli, e ci si chiede se la necessità di trama sia davvero un alibi abbastanza solido, Dalton Trumbo cambia atteggiamento e salva il proprio matrimonio.
Con questa piccola mossa da manuale Roach chiude il cerchio virtuale e irreale del racconto di questo divo oscuro di Hollywood, spiccando il volo verso l’idealizzazione del personaggio storico in luogo della cronaca e della fedeltà all’opera cartacea da cui suppostamente sarebbe tratta.
Il problema delle biografie e delle trasposizioni cinematografiche dei ritratti umani è sempre lo stesso, dall’inizio alla fine della storia del cinema. Si oscilla con metodo tra cronaca dei fatti storici e allegoria dell’eroismo americano post-crisi economica di Wall Street.
La genialità del protagonista è una costante aritmetica con cui si condisce ogni trama, e può essere resa solo attraverso la rappresentazione della solitudine, dell’incomprensione del genio, della folta schiera di nemici, delle resistenze da parte dell’ordine costituito.
La pellicola di Dalton Trumbo non fa eccezione, e come ogni biopic a stelle e strisce che si rispetti deve raccontare una storia di segregazione, di razzismo, di violenza (psicologica) e di tragici errori del passato di una grande e integerrima nazione che non si ripeteranno mai più.
Quando tutto sta per cedere, siamo circa a metà film. A quel punto il direttore d’orchestra dà il segnale, e il protagonista segue il copione di qualunque eroe quotidiano che il cinema americano propina nelle sale di proiezione di tutto il mondo: torna sui suoi passi, chiede scusa, onora i valori (americanissimi) della famiglia, della patria, della giustizia e dell’amore.
Dopo aver espiato i peccati che non ha commesso (in prigione con Mr. Eko), Dalton Trumbo riabilita la propria immagine professionale e fa ripartire la propria carriera, ma solo grazie al suo ingegno e il sacrificio fisico e mentale.
Non si è mai visto sul grande schermo un eroe fortunato che arriva al successo grazie a qualche aiuto miracoloso della dea bendata. Se qualche film lo racconta, di certo dietro l’angolo nasconde un colpo di scena memorabile, l’inganno di un nemico o un rivale, la punizione della sorte che deve far tornare a posto tutti i pezzi.
Il denaro non si regala, il successo e il prestigio sociale non si conquistano stando seduti in poltrona. L’America vuole raccontare questa grande verità ogni singola volta, e il film di Trumbo non ha nessuna intenzione di sottrarsi o di scandalizzare il pubblico con qualcosa di eccezionalmente diverso.
Il risultato è una storia piana e a volte banale, senza accelerazioni né battute d’arresto, fedele alla propria controparte cartacea ma solo fino a un certo punto, capace di riportare i fatti realmente accaduti ma anche di riscrivere una storia più che conosciuta con la freschezza e l’aura patinata della metafora glorificante.
Non è affatto un caso che il film si concluda con una scena particolare, che tanto particolare non è. Dalton Trumbo riceve finalmente un meritato premio per il suo lavoro e tiene un bel discorso davanti a un gruppo di persone.
Spuntano le teste dei suoi famigliari, dei suoi amici, dei pochi che hanno creduto in lui quando tutto andava storto e anche di qualche antico nemico.
Trumbo li ha perdonati tutti, accetta il premio dopo lunghi anni passati a nascondersi e a scrivere sotto pseudonimo, ora l’inquisizione governativa ha allentato la presa, le cose stanno finalmente cambiando anche nel paese dove si promette giustizia e libertà per tutti.
Trumbo tiene un discorso commovente (per lui) in cui rievoca i tempi bui e difficili, condivisi da tutti i suoi colleghi e dagli altri che hanno lottato per le proprie convinzioni politiche.
Ed è giusto proporre un bel primo piano sulla faccia di Cranston, mostrare il trasporto e l’emozione sgorgante, scambiare orizzontalmente con i primi piani di amici e famigliari in una dialettica visuale piuttosto classica e poi chiudere con dissolvenza in nero con gli applausi di sottofondo.
Ci sono migliaia, forse milioni di pellicole made in USA che arrivano a un momento come questo; di solito sono commedie sentimentali, e il discorso serioso e in giacca e cravatta è l’occasione perfetta per il protagonista di dichiararsi urlando dentro il microfono.
Come se l’America non riuscisse a comunicare un solo sentimento o un solo concetto di complessità superiore se non mettendo l’eroe protagonista davanti a un pubblico o un uditorio assai numeroso.
La spettacolarità di questa strana esigenza ci fa credere che in fondo l’America sia un paese totalmente televisivo, dove ogni cosa non merita di essere detta o raccontata se non davanti a un grande pubblico.
Se ci fossero delle lezioni morali interessanti da scoprire dietro queste storie si potrebbe scusare la pretenziosità e la faccia tosta; ma tutte queste pellicole che si chiudono con gli applausi per qualcuno che ha capito i propri errori, si è pentito, si è dichiarato pubblicamente e ha avuto un grande successo sociale trascrivono in linguaggio cinematografico le stesse due regole d’oro cristiane marchiate a fuoco nella costituzione americana, che trasfigurano il concetto democratico alla base dell’ideologia occidentale e mascherano la molteplicità interpretative di tanti paesi sottoprodotti dalla diffusione dell’ideologia a stelle e strisce con una sola, gigantesca, maschera radicale.