Dylan Dog Color Fest n. 16 – Recensione
Pubblicato il 9 Febbraio 2016 alle 08:33
Tre passi nel delirio per l’indagatore dell’incubo. I vestiti fatti di carne di Dylan Dog imputridiscono e la signorina Claretta lo conduce nell’antro infernale dove vengono realizzati da Sir Bone. Nella seconda storia, Dylan e la sua compagna sono alle prese con un demone in sovrappeso di cui non riescono a liberarsi. Infine, Dylan in prigioniero in fondo a un pozzo e preda della claustrofobia.
Il Dylan Dog Color Fest è una testata partita nel 2007 per permettere a grandi autori e ai nuovi talenti del fumetto italiano e internazionale di cimentarsi con la creatura di Tiziano Sclavi, il più incline tra i personaggi di casa Bonelli a svariate interpretazioni.
La collana ha poi iniziato a perdere la sua ragion d’essere, ospitando molte storie scritte o disegnate dagli stessi autori della serie regolare, ma l’attuale direzione editoriale ha riportato il Color Fest in carreggiata. A partire da questo mese, l’albo diventa trimestrale con una diminuzione di pagine e di prezzo, e la quantità di storie per ogni numero potrà variare. Questo numero 16 ospita tre racconti, ognuno dei quali è interamente realizzato da un singolo autore che si occupa quindi di sceneggiatura, disegni e colori.
Sir Bone – Abiti su misura, la storia d’apertura, firmato da Ausonia, nome d’arte del fiorentino Francesco Ciampi, rispecchia nei contenuti esattamente quello che il Color Fest dev’essere concentrandosi sulla natura mutevole e cristallizzata al contempo di Dylan Dog. In superficie sembra che l’autore si diverta a dare un’origine esoterica all’iconica mise dell’indagatore dell’incubo ma la storia può prestarsi ad una decodificazione più complessa.
Quale che sia l’interpretazione che sceneggiatori e disegnatori vogliono dare a Dylan, il suo abbigliamento resta immutato, come quello di molti eroi dei fumetti: giacca nera, camicia rossa, jeans e scarpe clarks. Nella vicenda surreale imbastita da Ausonia, gli indumenti diventano la carne che riveste l’indagatore dell’incubo, la simbolica pelle che il protagonista deve rinnovare, cambiare, pur restando se stesso, per evitare di marcire nel manierismo.
Gli fa da contraltare il personaggio di Claretta, una di innumerevoli omologhe dalla quale emerge il disagio per la sua condizione, come una serie a fumetti che diventa noiosa e ripetitiva. Non vogliamo forzare troppo la chiave di lettura ma la sartoria sembra la metafora di una prolifica casa editrice e chissà che il nome “Sir Bone” non voglia essere un riferimento a Sergio Bonelli, non certo nella connotazione demoniaca, bensì in quella di “sarto geniale” che continua a produrre anche dopo la sua morte.
Come già dimostrato nei suoi lavori precedenti, l’autore è un maestro delle anatomie che rende in tutta la loro tangibilità e decadenza a ricordare i lavori di Egon Schiele. Le scenografie londinesi e la sartoria infernale si rifanno allo stile vittoriano con architetture e linee gotiche.
Le vignette sono coperte da una patina di tratti di matita, come i graffi di una vecchia pellicola impolverata, ad amplificare l’atmosfera onirica e impalpabile della storia. Efficaci anche le stranianti suggestioni cromatiche. In tal senso la cliente di Dylan sembra sottolineare quanto sia soggettiva la percezione che si può avere dell’indagatore dell’incubo.
Cattiva e amara la storia di Marco Galli intitolata Grick Grick in riferimento all’ossessiva onomatopea proveniente dal digrignare dei denti di un demone affamato ed obeso che si stabilisce in Craven Road n. 7. Un suono che fa accapponare la pelle al lettore, disturbante come lo è la vicenda di una famiglia disfunzionale con Dylan in versione figura paterna.
Il Dylan scarno e dinoccolato di Galli, con le guance scavate e le orecchie a sventola, può ricordare il tratto di Gipi. La sceneggiatura si traduce in primi e primissimi piani, sequenze mute, grandangoli deformanti, un uso studiato delle ombre, scenografie tangibili e una magistrale fotografia acquerellata tutto a favore di un’intensità espressiva ed emotiva devastante.
Aka B, al secolo Gabriele Di Benedetto, è l’autore di Claustrophobia, storia conclusiva dell’albo. Come il titolo lascia intendere, l’autore parte da una delle numerose fobie di Dylan imprigionandolo in fondo ad un pozzo per una riflessione sulla condizione diegetica del personaggio, bloccato in uno stallo antiautoriale. Nella metanarrativa il linguaggio riflette su se stesso e Dylan fa altrettanto attraverso le didascalie introspettive che invadono una splash-page quando si riempiono dei nomi delle donne amate dal protagonista.
Il tratto asimmetrico, stilizzato e sintetico dell’autore rinchiude Dylan in tavole costruite per amplificare il senso di costrizione. Il trip allucinogeno permette all’indagatore dell’incubo di espandere la sua percezione fino ad arrivare in contatto con un dio apatico sotto elettroshock che sembra un riferimento a Tiziano Sclavi.