The Hateful Eight – Recensione

Pubblicato il 26 Gennaio 2016 alle 23:56

Wyoming, alcuni anni dopo la Guerra Civile americana. A bordo di una diligenza, il cacciatore di taglie John Ruth conduce la ricercata Daisy Domergue verso la città di Red Rock dove la donna sarà impiccata. Con una bufera di neve in arrivo, Ruth decide di dare un passaggio al maggiore Marquis Warren, ex-soldato dell’Unione divenuto un cacciatore di taglie, e a Chris Mannix, rinnegato del sud che sostiene di essere il nuovo sceriffo di Red Rock. Il gruppo fa sosta in un rifugio di montagna dove incontra il messicano Bob, che si occupa del locale in assenza della proprieteria, il boia Oswaldo Mobray, il cowboy Joe Gage e il generale confederato Sanford Smithers.

The Hateful Eight

Dall’epopea de I Sette Samurai di Akira Kurosawa passando per gli antieroi de I Magnifici Sette di John Sturges si arriva al cinismo degli “odiosi otto” di Quentin Tarantino, al suo secondo western consecutivo dopo Django Unchained. Ancora una volta il regista mescola generi, linguaggi e citazioni nel suo stile peculiare. Sotto la superficie della storia di frontiera si cela infatti un giallo che rimanda a Dieci piccoli indiani di Agatha Christie e a film quali Signori, il delitto è servito e Invito a cena con delitto (tratto dal gioco in scatola Cluedo). Una vicenda venata da un tono comico grottesco e surreale con esplosioni di iperviolenza puramente exploitation.

Il regista suddivide il film in sei capitoli utilizzando i primi tre per introdurre i protagonisti, personaggi ambigui, nessuno dei quali è del tutto innocente, sfaccettati da interpretazioni mastodontiche fornite da un cast di fedelissimi di Tarantino. Il conflitto etnico già visitato nei due precedenti film da Tarantino torna nella dicotomia tra Samuel L. Jackson e Walton Goggins, rispettivamente nordista e sudista.

Il rifugio isolato in un’ambientazione innevata, la presenza di Kurt Russell, una Jennifer Jason Leigh da Oscar, unico elemento femminile, alieno, attorno alla quale si scatena un girotondo di omicidi, tutto questo risulta un omaggio di Tarantino a La Cosa di John Carpenter. Tim Roth gigioneggia nel ruolo del boia Oswaldo Mobray, la cui caratterizzazione ricorda il personaggio di Christoph Waltz in Django Unchained. Funzionali gli altri personaggi: l’imperturbabile Michael Madsen, un burbero Bruce Dern e un misterioso Demian Bichir.

Tarantino semina piccoli indizi nel corso della storia, sostenuta da dialoghi ammalianti, e non rinuncia al consueto gioco metanarrativo, il racconto nel racconto, in questo caso con lo splendido, terribile monologo di Samuel L. Jackson cui fanno contrasto le note al pianoforte di Bianco Natale. Nel quarto capitolo le cose cominciano a precipitare con una divertita svolta splatter. Il quinto capitolo è invece un flashback thrilling che sfrutta il senno di poi del pubblico. Il finale è cinico, beffardo e grottesco.

L’uso del 70 mm non è affatto sacrificato dalla sottrazione di spazi del rifugio in cui è ambientato il film e lo sguardo registico, che parte spesso dalla soggettiva dei personaggi, è sempre comunicativo e descrittivo. Evocative e cariche di tensione le musiche del leggendario Ennio Morricone. Uno dei migliori film di Tarantino che trascina il pubblico in 168 minuti di grandissimo cinema.

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