Creed – Nato per combattere – Recensione

Pubblicato il 6 Dicembre 2015 alle 00:06

Adonis Johnson è il figlio illegittimo di Apollo Creed, ex-campione del mondo dei pesi massimi morto sul ring. Adottato da Mary Anne, moglie di Apollo, Adonis è intenzionato a diventare un pugile professionista. Respinto dalla Delphi Boxing Academy di Los Angeles, dove si allenava suo padre, il ragazzo si reca a Philadelphia per chiedere aiuto all’uomo che strappò il titolo ad Apollo prima di diventare il suo migliore amico: lo stallone italiano Rocky Balboa.

Creed

Adonis siede sul divano e accende il proiettore. Sullo schermo la rivincita tra suo padre Apollo e Rocky Balboa. Adonis si alza e inizia a boxare contro l’immagine di Apollo mentre la figura di Rocky è proiettata sul corpo del ragazzo. Uno splendido esempio di metacinema che sintetizza i contenuti del film. Adonis raccoglie il testimone da Rocky Balboa diventando suo allievo ma dovrà prima confrontarsi con l’ombra ingombrante di suo padre.

Un po’ sequel, un po’ remake e un po’ reboot, Creed riunisce il talentuoso regista Ryan Coogler col giovane attore Michael B. Jordan che ha già diretto in Prossima fermata: Fruitvale Station. Sarebbe facile pensare ad un prodotto puramente commerciale, all’ennesimo capitolo pleonastico di una saga che non sembra aver più nulla da dire. E invece Coogler riesce a ripercorrere gli stilemi collaudati dei film di Rocky trovando nuova profondità emotiva e aggiornando il mito per il pubblico odierno.

Interessante come Adonis rappresenti l’ago della bilancia nel rapporto dicotomico tra Rocky e Apollo, prima avversari e poi amici. Se Rocky veniva dai sobborghi di Philadelphia per poi elevarsi socialmente ed economicamente attraverso il pugilato, Adonis decide di voltare le spalle ai benefici della sua eredità e ad un lavoro sicuro per poter inseguire il suo sogno.

La relazione tra Rocky e Adonis assume velocemente i connotati di un rapporto padre-figlio, un po’ come accadeva in Rocky V con Tommy Gunn ma senza gli stessi risvolti disfunzionali. L’intima conflittualità di Adonis con la figura mitica del padre fa eco a quella sviluppata nell’episodio precedente tra Rocky e suo figlio Robert. Sylvester Stallone è un Rocky sempre più segnato dall’età e dalle vicissitudini personali e inizia a familiarizzare con l’idea di dover morire dimostrandosi rassegnato di fronte alla malattia.

Se Adonis è restio all’idea di accettare il cognome Creed, allo stesso modo Rocky rifiuta di sottoporsi a chemioterapia. In tal senso, i due personaggi formeranno un legame simbiotico traendo forza l’uno dall’altro. Un rapporto nel quale s’inserisce la deliziosa cantante e attrice Tessa Thompson nel ruolo di Bianca, la ragazza di Adonis che funge da catalizzatore emotivo. Poco più di un cameo per Phylicia Rashad (Claire della mitica sitcom I Robinson) nel ruolo della madre di Adonis i cui momenti sullo schermo restano comunque memorabili.

La regia di Coogler è accattivante e la storia procede in miracoloso equilibrio tra dramma e commedia con alcune battute da antologia e la consueta retorica dello Stallone Italiano. Come in altri episodi della serie, la storia presenta due match fondamentali nell’arco narrativo del protagonista, uno a metà film e uno nel finale. Il primo, contro ‘Lion’ Sporino, è girato tutto in cinque minuti di uno spettacolare piano sequenza, omaggio al Rocky originale del 1976, uno dei primi film in cui venne usata la steadicam. Significativo il momento in cui Adonis si trova in cella, simbolicamente prigioniero dell’ombra di Apollo.

Il compositore svedese Ludwig Goransson ha creato un nuovo tema orecchiabile per Adonis che accompagna il pubblico per tutto il film. La prima e unica volta che ascoltiamo l’iconico tema di Rocky è il culmine emotivo della storia. Adonis si alza dal suo angolo e va incontro al suo destino. Il passaggio di consegne è avvenuto. La nuova generazione ha il suo Rocky.

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