Dylan Dog n. 351: In fondo al male – Recensione

Pubblicato il 27 Novembre 2015 alle 14:24

Dylan Dog viene ingaggiato dalla bella Fiona per indagare sull’omicidio della sua amica Molly avvenuto a Port Frost, villaggio scozzese di pescatori. Giunto nella piccola località, l’indagatore dell’incubo si trova a fronteggiare gli abitanti ostili ed eccentrici in una spirale che condurrà ad un terribile cataclisma. Dylan dovrà così scendere negli abissi del male.

Una delle promesse dell’attuale direzione editoriale di Dylan Dog è stata quella di restituire un maggior approccio autoriale alla serie. Non stupisce quindi l’esordio ai testi di un fumettista così singolare come Ratigher, nome d’arte dell’abruzzese Francesco D’Erminio, autore di graphic novel di successo che spaziano dal grottesco al surreale con specifiche influenze dal fumetto underground americano.

Non è tuttavia Ratigher a disegnare la storia bensì Alessandro Baggi, anche lui all’esordio sulla serie, dal tratto forse fin troppo convenzionale. Un punto in comune tra Baggi e Ratigher è l’uso dei retini, qui utilizzati non solo per le zone in penombra ma in alcuni casi anche per riempire lo sfondo di una vignetta, il che sembra esprimere il senso di straniamento che permea l’intera storia o amplifica lo stato emotivo di un personaggio.

L’albo si apre con una scena ad effetto, non esattamente horror ma carica di significato: la speranza che affonda nella malvagità. Poi la consueta sequenza della cliente di turno, in questo caso Fiona, che ingaggia Dylan Dog anche se non risulta ben chiaro per quale motivo l’indagatore dell’incubo dovrebbe interessarsi al caso di una ragazza scomparsa.

L’analisi introspettiva della donna è molto ben curata. Fiona è preda di un tormento e di uno squilibrio che la porta ad essere eccessivamente disinibita e, a tratti, isterica. Un caos interiore che si riflette nel disordine della sua abitazione dove spunta ripetutamente il simbolo del maiale che nel suo significato più negativo rappresenta la malvagità e la lussuria.

Ratigher omaggia i Led Zeppelin ricorrendo alle Giant’s Causeway comparse sulla cover di un loro albo, le particolari scogliere scozzesi che caratterizzano la fittizia cittadina di Port Frost come elemento iconico ed esoterico. La storia non ha mai una svolta horror potente ma lascia che le piccole meschinità quotidiane degli abitanti del villaggio vadano ad insinuarsi sotto la pelle del lettore favorendo un’atmosfera inquietante e grottesca.

La sceneggiatura è quasi del tutto priva di balloon pensiero e la costruzione delle tavole è piuttosto variegata. Particolarmente interessanti le quattro tavole mute (ad eccezione della prima vignetta) che precedono la splash-page con il grande gorgo. La prima è composta da tre vignette orizzontali, la seconda da sei vignette, la terza da nove e la quarta da dodici, a segnare l’agghiacciante simmetria, come la definirebbe Grant Morrison, di un implacabile conto alla rovescia. La particolare costruzione delle tavole con vignette di eguali dimensioni, l’uso iconografico dell’orologio e l’esplosione finale dell’apocalisse rimanda a Watchmen di Alan Moore che pure era una storia dalla struttura circolare.

Più di tutto questo è la caratterizzazione di Dylan che lascia riflettere. Tre i momenti su cui soffermarsi. Di fronte alle profferte sessuali di Fiona, l’indagatore risponde di non essere “quel tipo di ragazzo”. Un’affermazione che risulterà piuttosto ipocrita ai lettori di vecchia data della serie. A casa della donna, Dylan se ne esce con delle frasi poetiche e filosofiche che suonano troppo forzose e innaturali per il personaggio. Se si tratta di citazioni non siamo stati bravi a rintracciarle.

Ratigher ha il merito di spingere Dylan in fondo al male, come dice il titolo della storia, al contrario di altri sceneggiatori che lo tengono troppo spesso in disparte come semplice spettatore degli eventi. Nella discesa all’inferno finale, nulla viene lasciato all’interpretazione del lettore e Dylan diventa una sorta di Virgilio con la risposta sempre pronta, tanto da diventare irritante. Nel duello filosofico tra “Finché c’è vita c’è speranza” e “Chi di speranza vive disperato muore” trionfa il disincanto pessimista di Dylan.

Viene da chiedersi se sia una scelta precisa di Ratigher quella di accentuare alcuni dei tratti più contraddittori della personalità di Dylan, come la suddetta ipocrisia sentimentale e la sua malinconia di fondo, per renderlo più alienante e respingente per il lettore. Gli fa gioco Baggi che esalta le peculiarità fisiognomiche del personaggio rendendone i lineamenti sfuggenti quasi a sottolineare la mutevolezza di un personaggio incline a svariate declinazioni. In tal senso è di forte impatto la splash-page con il volto di Dylan spersonalizzato dal male. Una chiave di lettura per l’indagatore dell’incubo che rappresenta l’elemento più controverso, discutibile e interessante dell’albo.

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