Fear The Walking Dead – Recensione Pilot

Pubblicato il 28 Agosto 2015 alle 16:00

Una normale famiglia con problemi apocalittici.

Se debutti con l’etichetta di spin-off di una delle serie televisive più famose di sempre, difficilmente avrai l’occasione di sbagliare. E in un panorama mediatico così affamato e spietato come quello di oggi, un solo sbaglio può costarti caro.

Ma Robert Kirkman, padre della serie madre The Walking Dead, non che ideatore di questo Fear The Walking Dead, si trova in un periodo di forma smagliante e invidiabile (periodo che va avanti da qualche anno ormai, a dirla tutta) e anche questa volta sembra aver fatto centro: il pilot dello spin-off, che ha debuttato negli USA questo 23 agosto, ha fatto registrare ascolti da record. 10, 1 milioni di telespettatori si sono sintonizzati su AMC per seguire il nuovo prologo della nuova serie, superando perfino il record stabilito da Rick Grimes & comp quasi sei anni fa, che con il pilot della prima stagione di TWD sfiorarono i 5 milioni e mezzo di spettatori.

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Le aspettative, quindi, almeno stando ai dati di ascolto, sembrerebbero state ampiamente rispettate. Se ne è assicurato lo stesso Kirkman, che ha lavorato alla sceneggiatura dell’episodio, spremendo la punta della sua penna per tirare fuori dalla sua vena artistica quello che di cui è tanto capace: la normalità.

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Niente esagerazioni, nessuna psicologia cervellotica, nessuna filosofia incomprensibile né dialoghi ridondanti o esageratamente complessi: i personaggi a cui Kirkman dà vita sono semplici, quasi banali, e per questo funzionano alla grande. Perché fanno parte di un mondo che ci è vicino, un mondo che conosciamo, il nostro mondo, quello in cui viviamo: i protagonisti di Fear The Walking Dead potremmo essere noi, o i nostri vicini di casa. E se da un giorno all’altro il nostro pianeta dovesse essere colpito da un’epidemia zombie, sapremmo esattamente cosa fare: ce l’ha insegnato Kirkman.

Il successo di Fear The Walking Dead (ma la stessa cosa vale anche per la serie originale) non risiede nella storia: “un’apocalisse zombie devasta il mondo contemporaneo spingendo i sopravvissuti a trovare in ogni puntata un nuovo modo per sopravvivere”? Probabilmente, in meri termini di sinossi, non c’è niente di più banale nell’odierno mondo hollywoodiano. E allora cos’è che ha trasformato il serial di Kirkman (e molto prima il fumetto) in un vero e proprio fenomeno di massa? La risposta è ovvia: i protagonisti.

Non si tratta di Sylvester Stallone con un fucile semi-automatico che va a caccia di zombie, né di Jason Statham che fa saltare cervelli a destra e a sinistra. Non si tratta né di splatter né di jumpscare, né tanto meno di Brad Pitt che vuol salvare il mondo. Sono persone comuni che si ritrovano in una situazione fuori dal comune, e funzionano esattamente per questo: chi di noi saprebbe cosa fare davanti ad uno zombie, dopotutto?

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Il primo essere umano a trovarsi in una situazione simile è Nick Clark (Frank Dillane). Un ragazzo qualsiasi affetto dai problemi della droga, che si sveglia in una delle tante crack-house dell’arida Los Angeles solo per scoprire che tutti i suoi amici sono morti e la sua ragazza, Gloria, li sta mangiando.

L’orrore diventa una fuga, la fuga finisce sul cofano di un’auto, e Nick viene soccorso dal guidatore e dai tanti passanti che si trovavano in zona: è qui che la cinepresa ci ricorda che, si, questo è il mondo di The Walking Dead, ma la società non è ancora crollata sotto i morsi delle orde di zombie. Tutto sta per cominciare, proprio adesso, Nick è stato il primo testimone e Gloria la prima morta che cammina.

Ovviamente nessuno prende sul serio Nick. E’ un tossico. La polizia etichetta la sua testimonianza come i vaneggiamenti di un folle. Neanche la madre, Madison (interpretata dalla bravissima Kim Dickens) lo prende sul serio, troppo impegnata a rimproverarsi per essersi lasciata sfuggire così tanto il suo primogenito, troppo arrabbiata con se stessa per avergli permesso di rovinarsi la vita con la droga. Tanto meno la sorella di Nick, l’adolescente Alicia (col volto di Alycia Debnam-Carey), arrabbiata sia col suo irresponsabile fratello maggiore, sia con la madre.

A tenere insieme i pezzi di questa emblematica famiglia disfunzionale c’è Travis (interpretato dall’ottimo Cliff Curtis), compagno di Madison e “patrigno” dei due ragazzi. L’uomo fa spesso da paciere durante i numerosi litigi dei tre, e avendo lui stesso parecchi problemi col figlio genetico (Chris, arrabbiato con lui per aver divorziato con la madre, Liza) si sente in un certo senso ancora più responsabile nei confronti del figlio tossico della compagna.

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Sentendo irrecuperabile il rapporto col suo vero figlio vuole provare quanto meno ad entrare nelle grazie di Nick (l’altra figlia di Madison, Alicia, non lo sopporta un gran che) e decide di indagare sulla testimonianza del ragazzo, che ormai inizia a temere per la sua sanità mentale: ragazze morte che tornano in vita e iniziano a mangiare i tossici nelle crack-house? Stiamo scherzando? Roba da matti!

O no?

L’episodio scorre via fluido, senza sbavature, aiutato da dialoghi sempre precisi e puntuali in base alla situazione; scene piene di suspense in interni lugubri, sporchi, bui e inquietanti, si alternano a sequenze girate sotto la rassicurante luce del giorno, in luoghi pubblici e affollati, così distanti dalle atmosfere della serie originale che riescono senza difficoltà a donare una buona varietà di situazioni. La regia pulita non esagera mai ma convince sempre, normalissima ma mai banale esattamente come i protagonisti. Tutti i personaggi principali hanno una buona presenza sullo schermo e ognuno di loro compare quel giusto numero di volte che ci permette di imparare a conoscerli, ricordare i loro nomi, magari iniziare a scegliere il nostro preferito.

Per tutta la durata del pilot (poco più di un’ora) si ha la costante sensazione di qualcosa che sta iniziando, di qualcosa che va in salita, di un climax continuo: questo elemento è suggerito si dalla colonna sonora, che incalza di scena in scena, ma anche dalle sirene della polizia, sporadiche all’inizio ma sempre più presenti verso il finale. E anche dallo stato psico-emotivo di Nick, che ha paura di aver perso la testa a causa delle droghe, fino a quando lo sconcertante finale non gli dimostra, col sangue, che tutto quello che visto è assolutamente vero.

E, purtroppo, orrendamente reale.

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