Recensione: Swamp Thing di Grant Morrison e Mark Millar
Pubblicato il 3 Febbraio 2011 alle 16:30
Autori: Grant Morrison, Mark Millar (testi), Phil Hester, Kim De Mulder, Phil Jiménez, Chris Weston (disegni)
Casa editrice: Planeta De Agostini
Provenienza: USA
Prezzo: € 35,00, 15 x 23, pp. 456
Dopo i volumi dedicati a Black Orchid e Kid Eternity, la collana La Biblioteca di Lucien, imperniata su interi serial o particolari sequenze delle più rappresentative serie Vertigo, si arricchisce di quello dedicato alla run che la celeberrima coppia Grant Morrison/Mark Millar realizzò per Swamp Thing, il comic-book della Cosa della Palude, varato negli anni settanta da Len Wein e Bernie Wrightson.
Se all’epoca Morrison era famoso per opere dirompenti come Animal Man, Doom Patrol o Arkham Asylum, Mark Millar era al suo esordio negli Stati Uniti; i due, però, in Gran Bretagna avevano già lavorato insieme e sconvolto i lettori inglesi con le avventure allucinanti di Big Dave. Swamp Thing, peraltro, costituiva un rischio per Millar e Morrison, dal momento che la serie aveva assunto una valenza mitica grazie ad Alan Moore, che nei primi anni ottanta rivoluzionò con essa il fumetto americano, dando vita alla British Invasion.
Dopo l’abbandono di Moore, il serial era passato a Rick Veitch, che aveva fatto un buon lavoro; ma in seguito autori come Dick Foreman o Nancy A. Collins non si erano dimostrati al livello dei predecessori. Incuranti di essere messi a confronto con il sommo Moore, il duo Morrison/Millar partì subito in quarta, delineando una story-line pazzesca e stravagante. Tali storie possono essere lette in questo libro che comprende i nn.140-157 del mensile.
Moore, nell’arco di due episodi, aveva stravolto Swamp Thing: se prima era un uomo che, a causa di un incidente, si trasformava in un mostro vegetale, il Magus stabilì che si trattava del contrario: era una pianta che credeva di essere uomo. Con attitudine contrapposta ma nello stesso tempo speculare a quella di Moore, quindi, Morrison e Millar iniziano la loro gestione con Alec Holland (alter ego umano di Swampy) che un giorno si sveglia e scopre di non essere mai stato una creatura mostruosa e che ciò che ha creduto di sperimentare era un delirio provocato da un allucinogeno. Ma è veramente così?
I due scrittori intessono una trama complessa, con riferimenti alla psichedelia, lo sciamanismo, con echi di Burroughs, Ginsberg, Terence McKenna, misticismo alla Castaneda, e un tocco New Age. E man mano che le vicende si dipanano, le situazioni si fanno sempre più sconcertanti: virus sessuali, non morte che si prostituiscono, necrofilia, accenni biblici, omaggi a Vonnegutt, citazioni di Billie Holiday e dei Led Zeppelin, suggestioni mutuate dal cinema di David Lynch e influssi di ‘Scorpio Rising’ del satanista Kenneth Anger, stilemi espressivi del romanticismo inglese, del gotico sudista alla Faulkner, della new wave di Ballard e della science-fiction di Spinrad (c’è addirittura Adolf Hitler che sposa Marilyn Monroe!).
Ma trattandosi di un fumetto DC, appaiono anche vari personaggi della sezione occulta dell’etichetta come Deadman, il Dr. Fate, lo Spettro, Sargon lo Stregone (che ha un ruolo chiave nella story-line) o una versione alternativa di Solomon Grundy e non mancano flashback riguardanti Crisis. Il tutto in un piacevole mix di fantascienza e horror, con mondi paralleli alla Philip K. Dick e una impronta testuale e narrativa che spazia da Joyce al post-modernismo. La storia del volume è la cronaca avvincente del percorso iniziatico di Swamp Thing, costretto, suo malgrado, ad affrontare prove sempre più letali, frutto delle macchinazioni del Parlamento degli Alberi e del Parlamento delle Pietre, con rimandi alle tradizioni ancestrali del bayou della Lousiana, di Stonehenge e della Foresta Nera germanica.
I testi sono di gran livello ma la parte grafica è discontinua: Phil Hester e Kim De Mulder sono efficaci ma ci volevano pencilers di maggiore impatto e solo Chris Weston e Phil Jiménez si dimostrano superiori alla media. Forse questa gestione non è paragonabile, per importanza, a quella di Moore, ma è un lavoro di qualità e merita di essere letta. C’è, però, un appunto che mi sento di fare, non tanto sull’opera quanto sulla proposta editoriale della Planeta. La run in questione, infatti, è più godibile se letta dopo quella di Moore; di conseguenza, sarebbe stato preferibile pubblicare prima la gestione del Bardo di Northampton. Pazienza.
Voto: 8