Cosa significa “adattare” un fumetto al Cinema?
Pubblicato il 5 Agosto 2015 alle 12:00
La fedeltà al fumetto originale garantisce la qualità di un film?
Fateci caso, tra le critiche che maggiormente vengono mosse alle trasposizioni cinematografiche di un fumetto, quella prevalente è: ” Non è fedele al fumetto! Hanno stravolto tutto!!”
C’è solo un piccolo problema da attribuire a questa presunta critica: la fedeltà integrale al fumetto non è un elemento funzionale alla qualità di un adattamento cinematografico, ma solo un’utopia che acquista importanza per l’anima nerd più accanita che si cela in ogni fan.
Rispettare o non rispettare il nucleo essenziale dell’opera originale è una scelta che tutt’al più può rispondere ad esigenze di coerenza, integrità e rispetto verso l’autore del fumetto e gli appassionati dello stesso, per non cadere nella trappola della “mera commercialata che utilizza la licenza solo per attirare pubblico”.
Ora, a rischio di dire una cosa banalissima, sono costretto a mettere in luce una verità scontata: il Cinema e il Fumetto costituiscono due medium distinti e separati, per quanto mantengano qualche piccola similitudine sul piano della sceneggiatura e della composizione figurativa. Ciò che funziona su carta non è detto che possa funzionare anche sul grande schermo.
Si parla di “adattamento” proprio perché deve essere il Fumetto ad adattarsi al Cinema, e di certo non il contrario. Per anni ho creduto ingenuamente che un fumettista del calibro di Frank Miller da solo avrebbe potuto realizzare un grande adattamento per il cinema, finché non ho visto il suo pessimo The Spirit (2008), che presentava carenze sul piano registico, una fotografia copiata dal Sin City diretto con Robert Rodriguez e incollata male su schermo e una lettura troppo superficiale e macchiettista dei personaggi creati da Will Eisner .
Che dire di Watchmen? Il regista Zack Snyder ha provato a realizzare l’impossibile: adattare al cinema l’omonimo capolavoro a fumetti di Alan Moore, rimanendo pedissequamente fedele alla trama (tranne per il finale puntualmente contestato dai fan), ai dialoghi originali e alla ricostruzione dell’essenza e dell’estetica dei personaggi.
Il risultato? Buono, ma non privo di difetti a causa della prevalenza di una forma discutibile a discapito della sostanza (difetto riscontrabile in molte pellicole di Snyder).
Il problema è che Watchmen è uno di quei capolavori che non si presta ad essere trasportato in nessun altro campo artistico che non sia il fumetto, in quanto, oltre la perfetta sinergia tra testi e disegni che genera suggestioni uniche nella lettura, presenta un universo perfetto, in cui la trama e i personaggi sono definiti per filo e per segno in modo tale da non lasciare spazio a variazioni interpretative.
Ciononostante, chi potrebbe mai sapere se un regista come Terry Gilliam, maestro della fantascienza visionaria ma non accessibile a tutti (Brazil, Parnassus, L’esercito delle 12 scimmie), avrebbe potuto fare meglio di Snyder !?
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Qualcuno potrebbe dire: “Eh, ma per valutarli bisogna saper contestualizzare. Sono pur sempre dei filmetti tratti da fumetti…” Eh no, gli adattamenti cinematografici dei fumetti (non utilizzo il termine “cinecomic” proprio perché sta diventando ingiustamente etichettante e degradante) non sono per forza dei film d’azione ignoranti: sono film che devono essere giudicati oggettivamente, al pari di ciofeche allucinanti o capolavori assoluti.
Nella settima arte sono richiesti requisiti fondamentali come: la regia, la fotografia, il montaggio, la recitazione, la colonna sonora e, soprattutto, la credibilità scenica.
Diciamocelo, con specifico riguardo agli adattamenti di comic supereroistici, per quanto esista una cosetta chiamata “sospensione dell’incredulità”, è difficile che un film con tizi appariscenti in calzamaglia con o senza superpoteri non risulti sopra le righe, piattissimo e patinato; a meno che quello stesso film non sia reso realistico per quanto possibile (vedi quanto successo con la trilogia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan), o abbia un tono ironico tale da non farsi prendere troppo sul serio ( vedi I Guardiani della Galassia del grandissimo James Gunn), o costituisca un dramma credibile dalle tematiche attuali ( vedi gli X-men di Bryan Singer), o mantenga un’atmosfera soft con qualche spruzzata di romance per alleggerire l’eccessiva drammaticità (vedi il Superman di Richard Donner, con l’inarrivabile Christopher Reeve capace di farci credere davvero che “un uomo potesse volare”).
Se parliamo poi di film con supereroi tanto odiati per la loro mancata conformità al fumetto, non posso non citare il tanto vituperato Iron Man 3, la cui qualità è stata incredibilmente contestata solo ed esclusivamente per la questione legata all’utilizzo del villain principale, il Mandarino (interpretato da Ben Kingsley).
Un plebiscito che ha costretto addirittura i Marvel Studios a “rimettere le cose a posto” per accontentare i fan con il corto All Hail the king. Aaaah quanto hanno rotto le scatole con la storia del Mandarino!
Senza nemmeno rendersi conto che quel divertente twist-plot nascondesse una sottile metafora della paranoia americana sul terrorismo post ’11 Settembre 2001 o che Iron Man 3 fosse in generale un ottimo film d’azione dal sapore anni ’80, ben girato e ben scritto da Shane Black ( Arma Letale, Last Action Hero, Kiss Kiss Bang Bang), con una comicità in perfetta linea con l’interpretazione data al carismatico Tony Stark (Robert Downey Jr).
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Discorso simile può essere fatto per l’atteso reboot cinematografico dei Fantastici 4, poiché anche qui la maggior parte della platea è andata giù di giudizi negativi (sempre più assurdi) legati a questa benedettissima fedeltà al fumetto.
Le critiche che bollano la scelta di un attore di colore (il talentuoso Michael B. Jordan) per interpretare il bianco Johnny Storm/torcia umana come “un’ inutile operazione anti razzismo che in realtà risulta ancora più razzista” si dimostrano sterili, infondate, inutilmente paranoiche e ipocrite.
Eh certo, perché il colore della pelle è essenziale per il rispetto dell’essenza di un personaggio……. A parte la conformità, pensare solo per un attimo che questioni come l’apparente mancato rispetto del concetto di “famiglia” del fumetto dei Fantastici Quattro (una delle tante critiche basate solo sul trailer) o la scelta diversa della razza di un attore possano essere decisive per la buona riuscita al cinema del film è sintomo di una mentalità che ancora non comprende che cosa determini davvero la qualità di un film e che spara a priori sentenze negative su tutto ciò che diverge dal fumetto.
Oltretutto bisogna considerare quattro premesse:
- il film ancora deve uscire al cinema,
- se date un’occhiata al suo Chronicle , saprete concedere più di una chance al regista del film Josh Trank,
- Se guardate anche uno solo tra film e serie tv in cui hanno recitato i quattro attori protagonisti ( Miles Teller, Michael B. Jordan , Kate Mara e Jamie Bell), capirete che non hanno scelto quattro attori a caso,
- sarà molto, molto difficile fare peggio dei precedenti film dedicati al quartetto della Marvel.
Negli ultimi anni molte trasposizioni cinematografiche hanno funzionato soprattutto per la sana passione degli addetti ai lavori, per la meticolosa cura tecnica (chi si ricorda il magnifico piano sequenza presente in Old Boy di Park Chan-Wook!?), per la loro atmosfera e il contesto temporale in cui sono usciti, per il tipo di film (live action o animazione) e, solo in minor misura, per il mantenimento dello spirito fumettistico.
Troppo poco spesso vengono nominati alcuni lungometraggi apprezzabili per l’estetica e la personale visione di registi e attori, tra questi ci sono: Diabolik (1968) di Mario Bava, un piccolo gioiello pop e psichedelico snobbato da critica e pubblico; The Rocketeer di Joe Johnston, ricco di stereotipi nella sceneggiatura, ma notevole per gli effetti visivi e per la meravigliosa colonna sonora di James Horner; e Dick Tracy, scritto e diretto da Warren Beatty con il contributo musicale /attoriale di Madonna, che adatta al meglio il fumetto di Chester Gould con uno stile creativo, caricaturale, in surreale bilico tra il serio e il faceto.
Negli anni ’90 ci sono stati film che, pur apportando le necessarie modifiche ai fumetti a cui si sono ispirati, sono entrati nell’immaginario collettivo grazie alle interpretazioni immersive degli attori e alle atmosfere create dalla fotografia e dalla colonna sonora: è il caso di The Mask, meno cattivo rispetto all’omonimo fumetto di John Arcudi e Dough Mahnke, ma spassosissimo per merito dello “spumeggiante” Jim Carrey; e de Il Corvo, tratto dall’opera di James O’Barr, con il compianto Brandon Lee immerso in un’atmosfera cupa e onirica, impreziosita dalle canzoni dei Cure.
Registi particolarmente influenti come Tim Burton (Batman, Batman- il ritorno), Guillermo Del Toro (Blade 2, Hellboy, Hellboy 2 – the golden army), Sam Raimi (Spider-Man, Spider-Man 2 ) ed Edgar Wright (Scott Pilgrim vs the world, Ant-Man.… aarrgh che cosa ti sei persa, Marvel!) sono riusciti a convincere i produttori ad abbandonare pretese puramente commerciali e ad assumere in pieno una perfetta direzione artistica per modellare il fumetto al proprio stile cinematografico, portando anche modifiche al materiale originale.
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In particolare con Batman-il ritorno, Burton nel ’92 se ne infischiò che il tono oltre modo dark e gotico, accentuato dall’inquietante colonna di Danny Elfman, avrebbe tenuto lontani i bambini dalle poltroncine del cinema, girando una vera e propria favola nera in piena sintonia con la sua filmografia; un oscuro gioco di maschere tra freak che coinvolge: un pipistrello (Batman, Michael Keaton) emarginato in secondo piano, una gatta (Catwoman, Michelle Pfeiffer) in crisi di identità, un pinguino (Oswald Cobblepot, Danny De Vito) vendicativo discriminato per le sue fattezze sulla scia dell’ Elephant Man di Lynch, un uomo ( Max Schreck, Christopher Walken) emblema della corruzione, dell’egoismo e dell’ipocrisia della pseudo-politica moderna e una società borghese ingenua, consumista e credulona.
A volte gli stessi fumetti hanno una struttura e una trama tale da facilitare il processo di adattamento sul grande schermo: è quanto successo con i titoli dal forte respiro cinematografico scritti da Mark Millar, che hanno ispirato per la regia di Matthew Vaughn film godibilissimi come Kick Ass e Kingsman: Secret Service, dove la cura registica, la credibilità attoriale, l’intrattenimento puro e la violenza assicurano un perfetto connubio tra i due linguaggi artistici.
Diverso il discorso da fare per i film d’animazione, in cui, oltre alla qualità filmica, è possibile garantire una maggiore corrispondenza al fumetto originale a causa di elementi estetici, prettamente formali e per la mancanza della credibilità scenica live action.
Lungometraggi d’animazione come Arrugas–Rughe, Persepolis e L’arte della felicità commuovono e fanno riflettere anche al cinema, mantenendo intatto le sensazioni, lo stile di disegno e la sensibilità dell’opera ispiratrice.
Ricollegandoci, dunque, alla domanda che dà il titolo a questo discorso generale, potremmo dire che “adattare” significhi conformare il fumetto al linguaggio cinematografico, valutando se il nucleo essenziale dell’opera originale, in qualità di mero supporto creativo, possa funzionare anche sul grande schermo, magari affidandosi a registi e collaboratori che garantiscano passione nella cura dei dettagli tecnici e che non diano adito ad inutili ragioni di fan service.
È vero, sarebbe preferibile che un adattamento mantenesse intatto quanto meno lo spirito originale del fumetto da cui è stato tratto, ma se in caso contrario il film risultasse comunque perfetto sotto il profilo tecnico-visivo, sapete dove potrebbe essere messa la fedeltà al fumetto?
Potrebbe apparire soggettivo preferire un adattamento ottimo da un punto di vista cinematografico rispetto ad uno più fedele al fumetto, ma l’intento di questa umile riflessione è anche quello di invitare a saper distinguere la qualità tecnica di questo genere di lungometraggi dalle questioni di conformità al fumetto che oggettivamente non hanno nulla a che fare con il cinema.