San Andreas – Recensione

Pubblicato il 1 Giugno 2015 alle 13:51

L’instabile faglia di San Andreas causa una serie di potentissime scosse di terremoto che devastano la California. Il coraggioso vigile del fuoco Ray Gaines, pilota di elicotteri di soccorso, trae in salvo la sua ex-moglie Emma, dalla quale si è separato dopo un terribile trauma familiare. Insieme cercano di raggiungere la figlia Blake, abbandonata dal codardo nuovo compagno della madre e coadiuvata da due nuovi amici, i fratelli Ben e Ollie.

San Andreas

“La faglia di San Andreas ti dice niente?” chiede Lex Luthor, interpretato da Gene Hackman, in Superman, il film di Richard Donner uscito nel 1978. “E’ la congiunzione di due grandi masse”, risponde l’Uomo d’Acciaio. “La faglia è assai instabile e si sposta provocando dei terremoti in California di quanto in quanto.” Luthor dirotta quindi un missile dell’esercito facendolo esplodere sulla faglia e Superman deve arginare la distruzione che ne consegue risistemando le placche tettoniche a mani nude. Ma cosa accade se non hai un supereroe a disposizione? Ci pensano i muscoli di Dwayne Johnson che torna a collaborare con il regista Brad Peyton dopo Viaggio nell’isola misteriosa.

I disaster movie, per propria natura, si appellano alla sospensione dell’incredulità del pubblico poiché propongono situazioni improbabili, personaggi stereotipati e catastrofismo esagerato. Chi paga il biglietto per questo genere di prodotto sa di dover stare al gioco nel rispetto delle regole del genere. Tuttavia, pur tenendo il cervello spento e riempiendosi la pancia di pop-corn, la visione di San Andreas risulta una noia mortale.

Manco a dirlo, il tema che tiene insieme l’arco narrativo dei personaggi è quello ormai abusato della famiglia che sta diventando un po’ la scappatoia degli sceneggiatori pigri. Il protagonista, interpretato da Dwayne Johnson, ha una back-story tragica che l’ha portato a separarsi dalla moglie, Carla Cugino (Watchmen). La catastrofe che li aspetta è il pretesto, pure accettabile, che li costringe a cooperare per tentare di raggiungere la figlia, la bellissima Alexandra Daddario (True Detective).

Bloccata a San Francisco, la ragazza viene aiutata da due fratelli simpatici e di buona volontà, tanto per rimanere in tema familiare, il fascinoso Hugo Johnstone Burt e il tredicenne Art Parkinson. I risvolti sentimentali sono quanto di più scontato ci si possa aspettare. Ioan Gruffudd (Reed Richards ne I Fantastici 4 di Tim Story) è il vigliacco della situazione e il suo percorso si esaurisce in un paio di scene. Paul Giamatti fa il sismologo che dà solo spiegoni al pubblico assistito da una giornalista interpretata da Archie Panjabi, totalmente inutile. Insensato pure il cameo di Kylie Minogue.

La distruzione presentata nel film non presenta idee visive nuove. I personaggi non fanno altro che fuggire e le rare situazioni di pericolo in cui si trovano vengono sempre risolte troppo velocemente. Le scene d’azione non denotano ingegnosità né thrilling e il film ha il torto di prendersi anche troppo sul serio. La fisicità di Dwayne Johnson non viene sfruttata. Lui e Carla Cugino non fanno altro che cambiare mezzi di trasporto passando tra elicotteri, aerei, auto, motoscafi e un lancio con un paracadute. Estrarre un pezzo di vetro dalla gamba di Johnstone Burt viene fatta passare come la scena più tesa del film.

Tutto viene lasciato agli ultimi venti minuti a cui si arriva attraverso risvolti inattendibili anche per i canoni del genere. Il lieto fine buonista sfocia nel ridicolo e si giunge al consueto epilogo onanista a stelle strisce. 110 milioni di dollari per cucinare un insipido minestrone di banalità che punta troppo su una componente intimista prevedibile e non lascia nulla sul piano dell’action.

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