Youth – La giovinezza: Recensione del film di Paolo Sorrentino

Pubblicato il 26 Maggio 2015 alle 11:10

Due anni dopo aver stupito e affascinato il mondo con la sua “Grande Bellezza” il regista partenopeo torna nuovamente dietro la macchina da presa dirigendo veri pezzi da novanta del panorama cinematografico internazionale.

La pellicola segue Fred Ballinger (Michael Caine), anziano direttore d’orchestra ormai ritiratosi dalle scene ma che riceve comunque continue richieste per un concerto a Londra, a Buckingham Palace in occasione del compleanno del duca di Edimburgo, durante un soggiorno in un prestigioso centro benessere sulle Alpi svizzere con la figlia Lena (Rachel Weisz), reduce da un matrimonio finito, e l’amico Mick (Harvey Keitel), vecchio regista ancora in attività alle prese con il suo ultimo film, il suo testamento. I due amici si trovano a riflettere insieme sul futuro, osservando con curiosità le vite dei propri figli e degli ospiti dell’albergo in cui risiedono.

Non si aspetterà a fine recensione per dirlo: Paolo Sorrentino è il regista di cui gli italiani dovrebbero andare più che fieri. Quello che riesce a trasporre su schermo per circa due ore è un’ode alla vita, che sia una giovinezza ormai passata o una senilità da raggiungere prima o poi. In questo si riconosce una particolare affinità con La Grande Bellezza; se prima era Jep Gambardella a muoversi con atteggiamento disincantato in una Roma decadente, maestosa e malinconica ora è Fred Ballinger che cerca, osserva e scruta ormai da lontano una giovinezza andata e che non può più tornare, il tutto non più nell’immortale Città Eterna ma in un luogo più piccolo e intimo quale è l’hotel dove egli risiede. Youth-La Giovinezza è figlio de La Grande Bellezza, perchè ne riprende spunti e attimi, riflessioni e sospiri; senza la pellicola premio Oscar non ci sarebbe stato questo ultimo film.

Youth- La Giovinezza è un racconto piccolo, intimo e dolce. Sorrentino ha più volte dichiarato che, senza la presenza nel cast Michael Caine, il film non si sarebbe mai potuto realizzare e a ragione; l’attore premio Oscar porta a compimento la sua carriera con il ruolo di una vita, un’interpretazione che resterà, affiancato da un Harvey Keitel perfettamente e straordinariamente in parte, amico intimo e complice di Fred con il quale ha sempre condiviso e continua a farlo una infinita amicizia fatta di cenni e battute sincere e appassionate.

Il tutto viene arricchito da una stupenda Rachel Weirs, qui figlia di Fred, , bellissima, consapevole, divina, non è molto presente nel film ma ogni volta che appare su schermo il tutto è ancora più magnifico, e dal criptico e magnetico Paul Dano, qui giovane attore che, ritiratosi nell’hotel, prepara il suo prossimo personaggio. Più che semplici personaggi di contorno le loro presenze sono potentissime nell’organico dell’intero film; che sia sputare in faccia verità forse dimenticate, volutamente o meno, peccati di gioventù di un padre mai sopiti da una figlia (magnifica la scena con il peccato rappresentato dal fango sul corpo) o rappresentazione di un male dell’umanità che non dovrebbe essere dimenticato e impersonato da un mostro che fa paura solo alla vista mentre rivolge un saluto a un’innocente inconsapevole.

Il senso sta proprio in questo: il tempo, spesso, cancella i ricordi, là dove dovrebbero essere indelebili; per questo ad un certo punto della vita il “vecchio” sente di voler tornare nuovo, di voler riscoprire una nuova giovinezza che vive in un concerto in una prateria di bovini al pascolo, nel film di una vita, nella morte vista con i propri occhi alla quale non si può sfuggire o anche solo al palleggio verso il cielo di una pallina da tennis.

Disarmante la sottilissima ironia con cui il tutto viene confezionato, ironia che diventa autoironia o verso gli altri, o ancora verso questa o quella vita; menzione speciale va fatta per la splendida fotografia di Luca Bigazzi e le musiche di David Lang.

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