Hopper, l’uomo cavalletta – una recensione
Pubblicato il 13 Marzo 2015 alle 11:15
A volte, per vedere con chiarezza il mondo che ci circonda, con le sue contraddizioni e i suoi vizi, c’è bisogno di occhi diversi…occhi di cavalletta.
Svetta con un balzo dal piatto campo delle produzioni editoriali, Hopper, The Story of Grasshopper Man, fumetto splatter/fantasy/satirico di critica sociale nato da un’idea di Rocco Muzzupapa, scritto e disegnato da Massimiliano Regoli e donato alla rete dalla casa editrice digitale Wannaboo.
Italia…da qualche parte…
Così si apre l’episodio 00 di Hopper ed è già un segnale di stile, di pensiero. Non stiamo parlando di un luogo preciso del paese Bello e Corrotto, ma di un punto generico, indefinito, che si erge a simbolo di tutta la nazione. Lì, in una villa cinta da un sontuoso giardino, in una notte di tuoni e nubi nere, un uomo si risveglia e il suo aspetto è quello di una cavalletta gigante. O meglio, di una “improponibile locusta di abnormi dimensioni”.
Raffinato e colto appassionato di ogni branca dello scibile umano, il padrone di casa tramutato, senza sapere come, in un ortottero parlante, non ricorda nulla del suo passato, ma conserva un patrimonio pressocché sconfinato di conoscenze…e un disgusto inestirpabile verso tutto ciò che è grezzo, volgare ed ignorante. Ancor più sconvolgente, tuttavia, è il fatto che la sua mostruosa mutazione non sembra essere percepita da nessuno, nessuno ne pare notare i sei arti chitinosi, le lunghe antenne o gli abnormi occhi neri. O meglio, quasi nessuno.
Un grido irrompe all’interno della magione, una richiesta d’aiuto, proveniente dalla strada. Una ragazza sta per essere violentata da due energumeni. Questo, Hopper, qualunque sia il suo aspetto, non lo può accettare. Accorrendo come un fulmine dalla finestra di casa sua, sgomina i due aggressori, respingendo i proiettili con la sua impenetrabile armatura e trafiggendo gli scagnozzi con le sue zampe armate di falci. Per quanto sconvolta, la fanciulla da lui così eroicamente tratta in salvo, non perde un secondo e si immerge nelle preghiere per le anime dei defunti stupratori.
Il suo nome è Lucia, ha diciotto anni ed è un’orfanella cresciuta sotto l’ala protettiva di Suor Carbonia, da cui ha ricevuto la più stringente educazione religiosa. Poco conosce del mondo e nulla della omnicomprensiva cultura di Hopper, ma ha qualcosa di speciale: riesce a vedere la cavalletta di fronte a sé. E, tuttavia, lo accetta senza battere ciglio, con il candore che le fa esclamare “le vie del Signore sono infinite!”.
Da quella notte Hopper si troverà, suo malgrado, a spartire villa e misteri con la devotissima e formosa fanciulla, dividendo le proprie giornate tra odiose sessioni di shopping (che degenerano immancabilmente in stragi di ignoranti) e indagini serrate per capire cosa nasconda il suo passato dimenticato. Approfittando dei suoi nuovi, potenti attributi da locusta gigante, diventa il paladino dell’erudizione, del bon ton e del sapere, intraprendendo una truculenta crociata contro tutti quegli “italiani medi” che confondono Lourdes con il Louvre e pensano che l’autore de “I Tre Moschettieri” sia Dan Brown.
Presto, tuttavia, l’intrigo si fa più fitto: la scoperta, in una stanza segreta della villa, di un’immensa statua raffigurante un’antica divinità dalle zampe di locusta, apre scenari più vasti ed enigmatici, assieme all’incredibile constatazione che non solo Lucia è capace di vedere le forme di cavalletta, ma anche tutta la putrescente classe politica italiana.
Cosa si nasconde dietro a questa sensazionale rivelazione? Cosa rende i dipendenti di Montecitorio immuni dalla nebbia cerebrale che avvolge il resto degli italiani? Perché l’idolo di una divinità sconosciuta si trova nascosto dietro alla camera da letto di Hopper? E basteranno i suoi artigli di locusta a fermare la cospirazione in atto per controllare il mondo?
Una saga sarcastica, paradossale e paranormale, avvincente e grottesca, che condensa, in 13 volumi, tutto ciò che l’Italia intera è solita chiudere gli occhi per non vedere. Hopper, The Story of Grasshopper Man, è un atto d’accusa contro la situazione attuale del nostro paese, contro l’ignoranza, la maleducazione, il razzismo e la disinformazione regnanti che sembrano diffondersi come un morbo di cui non si conosce cura.
Un quadro cinico, firmato da un “cervello in fuga“, da un autore, Massimiliano Regoli, che, dopo logoranti anni di delusioni e tentativi, è stato costretto a partire, come tanti altri, a lasciare il suo paese natale con l’amarezza nel cuore e pochissima intenzione di tornare. Partendo da questa visione disillusa e amaramente realistica della situazione italiana, l’attuale professore del Raffles Institute di Ulan Bator dona voce e disegni ad una critica sferzante che farà arrossire di vergogna ed imbarazzo ogni lettore.
Davvero la nostro cultura è definitivamente tramontata, i nostri valori ammuffiti e le nostre speranza di rinascita come nazione abortite? Davvero ci troviamo ormai ad un punto di non ritorno in cui una malfamata, criminale classe dirigente schiaccia sotto il proprio tallone infangato un popolo assuefatto di informazione faziosa, volgarità e telenovelas?
Molti sono gli spunti di riflessione che emergono da quest’opera ombreggiata di sarcasmo e forgiata nel grottesco.
Da una parte, la stridente contraddizione vigente tra un’Italia colta e raffinata, ma inesorabilmente al tramonto, simboleggiata dall’eremita Hopper e dalla sua villa decadente, che si confronta con la grettezza, il malcostume e la corruzione dilaganti. Dall’altra, la denuncia indiretta all’ipocrisia di quel paladino dell’intelletto, che conduce la sua battaglia non a suon di ragionamenti, ma sbudellando e squartando senza freni, inabissandosi, di fatto, in uno stato di bestialità peggiore di quello del volgo che disprezza tanto.
I disegni di Massimiliano Regoli sono la perfetta manifestazione grafica del pensiero sotteso all’intero intreccio drammaturgico e ne provano l’indiscusso talento artistico, capace di toccare gli estremi più distanti a seconda delle necessità sceniche e narrative. Il tratto di Regoli sa infatti essere rapido, sfuggente e caricaturale nelle scene di maggior “leggerezza”, divenendo invece solido, ben cesellato, scolpito nel chiaroscuro di molte piccole linee quando l’atmosfera generale del racconto è più seria e tesa.
Variegato è anche il lettering: nei primi episodi bolle tremolanti di inchiostro si trovano a contenere testi in un font tanto deciso quanto basilare, che stride però con le battute forti, ricche di sfumature e termini dialettali in esse contenute. Successivamente, è lo stesso autore a “metterci la mano”, vergando dialoghi più espressivi anche dal punto di vista visivo.
Particolare attenzione merita poi la caratterizzazione linguistica dei personaggi, sia dei protagonisti che delle tante comparse facenti parte della grande e variegata massa delle “italiche genti”. Hopper racchiude infatti tutte le più disparate sfumature di italiano regionale, utili a definire quegli stereotipi così noti eppure così reali: il leghista veneto, il rozzo fattorino romano, lo scontroso pastore altoatesino, fino al ben più classico “pacino” malavitoso.
Ma la satira di Massimiliano Regoli non si ferma all’indicazione superficiale di tipi sociali da condannare. Egli porta in scena caricature quanto mai palesi di personaggi noti del mondo dello spettacolo, della televisione, dell’informazione e della politica italiana, riuniti in una sorta di grande cospirazione dell’ignoranza intenzionata a svuotare le nostre menti da qualsiasi pensiero libero, profondo ed indipendente.
Proprio la casta governativa è il nemico ultimo additato da quest’opera antisistema: una vera e propria “setta” dalle origini tanto mostruose quanto improbabili, che da tempo immemore ordisce le proprie trame ai danni della popolazione ignara.
Hopper appare dunque come un’opera di fantasia, ma anche di potente realismo. Ne sono un indizio le frequenti intromissioni, nel corso della narrazione, di generi grafici solitamente estranei al fumetto, come frammenti di fotografie, che irrompono con la violenza di flash al magnesio tra le pagine del racconto. In ciò si manifesta in pieno il taglio sperimentale di quest’opera, il suo sottrarsi ad ogni classificazione e giudizio, proprio perché sinceramente impegnata e legata ad un contesto socioculturale irripetibile.
Hopper, The Story of Grashopper Man, è l’urlo di protesta di un’intera generazione, di un popolo di fantasmi, quello degli ultratitolati laureati italiani a cavallo dei loro trent’anni, che, invece di vivere la piena maturità professionale e personale, sono costretti a dibattersi in una situazione di limbo ed incertezza capace di logorare anche la più fervida ed innocente speranza.
Amarezza è l’emozione prevalente di quest’opera, amarezza e disillusione, nascoste dietro una risata macabra. Ma anche denuncia e condanna nei confronti di chi ha potuto condurre un’intera società ad una situazione così drammatica.
Opinabile, tuttavia, rimane la scelta di individuare nelle solite sfere alte di potere l’unica fonte di tale degrado, tralasciando quel sentimento di accondiscendenza diffusa che fu in passato e rimane tuttora indispensabile per la conservazione di questo status quo di corruzione, stupidità, avidità, ipocrisia e menzogna.