La teoria del tutto – Recensione

Pubblicato il 19 Gennaio 2015 alle 12:37

La straordinaria storia di Stephen Hawking, geniale astrofisico britannico, celebre per le sue teorie sull’origine dell’universo e i buchi neri. Negli anni ’60, studente a Cambridge, il giovane Stephen conosce e s’innamora di Jane Wilde, dottoranda in letteratura. Il loro legame viene messo a dura prova quando Stephen scopre di essere affetto dalla malattia degenerativa dei motoneuroni che lo costringe su una sedia a rotelle. Nonostante il decadimento del corpo, però, la sua mente resta brillante.

La teoria del tutto

Vincitore dell’Oscar nel 2008 con il documentario Man on wire – Un uomo tra le torri, il regista inglese James Marsh si cimenta stavolta con la storia dell’illustre connazionale Stephen Hawking traendo spunto dal libro autobiografico dell’ex-moglie Jane Wilde, Traveling to infinity: My life with Stephen (appena pubblicato in Italia con il titolo Verso l’infinito – La teoria del tutto, tanto per cavalcare il successo del film).

In precedenza, nel 2004, le vicende dell’esimio astrofisico sono state portate sul piccolo schermo nel film Hawking, interpretato dal già magistrale Benedict Cumberbatch. Non lo fa rimpiangere un eccezionale Eddie Redmayne (che ritroveremo presto in Jupiter – Il destino dell’universo dei fratelli Wachowski) che ha appena vinto un Golden Globe per la sua interpretazione battendo, tra gli altri, proprio Cumberbatch, protagonista di The Imitation Game, e la sfida si ripeterà agli Oscar.

Redmayne riesce a calarsi nella difficile condizione fisica di Hawking raggiungendo una somiglianza impressionante che illude totalmente lo spettatore. Nonostante la crescente immobilità del protagonista, l’attore concentra la parte emotiva nelle espressioni fisiognomiche e nell’intensa profondità dello sguardo sfondando davvero lo schermo e arrivando al cuore del pubblico.

L’Hawking qui rappresentato è un coacervo di efficaci contrasti: il crollo del corpo contro il trionfo della mente, il sentimento contro il raziocinio, creazionismo contro evoluzionismo. Ad incarnare e riflettere tali dicotomie è la moglie cattolica Jane che ha qui il sorriso dolce e incantevole di Felicity Jones (la prossima Gatta Nera nella saga cinematografica di Spider-Man), donna forte e coraggiosa tanto da scegliere di restare accanto al marito per molti anni nonostante la malattia.

La prima mezz’ora di film è esaltante e si ha la sensazione di trovarsi di fronte al nuovo A beautiful mind. Ritmo serrato, dialoghi accattivanti, grande eleganza formale, tutto sostenuto dalla performance trascinante di Redmayne. Rifarsi all’autobiografia della Wilde, però, tende gradualmente a trascinare la donna al centro della narrazione.

Più che concentrarsi sulla figura geniale di Hawking, quindi, il regista tende a mostrare le difficoltà pratiche ed emotive nel vivere con un portatore di handicap e la vicenda si carica di stucchevoli dinamiche da soap opera per gli amanti del gossip. Prima si forma un triangolo sentimentale con il vedovo Jonathan, maestro del coro ecclesiastico interpretato da Charlie Cox (il nuovo Daredevil televisivo), ad esaltare la logica di Hawking nel gestire il rapporto con la moglie. Il triangolo si rovescia con l’arrivo dell’infermiera Elaine che scatena invece la gelosia di Jane.

Ogni svolta drammatica viene velocemente risolta con con l’edificante trionfo dei buoni sentimenti, tutto filtrato attraverso la fotografia patinata di Benoit Delhomme e le musiche commoventi di Johann Johannson fino ad un epilogo ruffiano con tanto di sequenza onirica e retorico monologo finale sottilmente antieutanasista. Mastodontica l’interpretazione di Redmayne, ottima quella della Jones, buona la confezione ma dentro c’è una telenovela travestita da prodotto cinematografico.

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