Gen di Hiroshima di Keiji Nakazawa: la nostra analisi/recensione
Pubblicato il 8 Gennaio 2015 alle 10:15
A 70 anni dalla catastrofe atomica, 001 Edizioni riunisce in un’ opera di inestimabile valore la più toccante testimonianza del bagliore che cambiò la storia.
Settanta anni fa, il 6 agosto 1945, una delle guerre più mostruose della storia raggiunse il suo apice di orrore. La caduta delle bombe atomiche sulle città di Hiroshima prima e Nagasaki poi, sconvolse il mondo intero, mostrando in quali abissi di orrore l’uomo accecato dall’odio è capace di spingere il proprio fratello.
Dall’esperienza incancellabile e traumatizzante di chi sopravvisse alla devastazione nucleare, prese vita la letteratura degli hibakusha, coloro cioè che furono colpiti dal grande flash e travolti dall’ondata di radiazioni, coloro che persero ogni cosa in quella tremenda esplosione, tranne la vita. Nakazawa Keiji è uno dei preziosissimi testimoni di quell’orribile storia. Scampato a soli sei anni al tragedia atomica, ebbe la propria famiglia devastata, perse padre, fratello e sorella e rimase solo con la madre ad affrontare un mondo che ardeva delle fiamme di un inferno. Figlio d’arte, riuscì a trovare nel disegno una ragione di vita e una valvola di sfogo, una via per denunciare gli orrori della guerra e per esprimere la sua severa condanna ad ogni forma di belligeranza. Così vide la luce Hadashi no Gen, grande impresa semi auto-biografica del maestro, un’epopea tanto più tragica nella misura in cui non si tratta del frutto della fantasia nera di un artista, ma di spietata realtà storica. Solo la realtà, infatti, è capace di produrre orrori tali, solo la consapevolezza che “è successo davvero” è capace di farti girare la testa a metà di una pagina o stringere lo stomaco osservando una vignetta. Le mostruosità compiute durante la seconda guerra mondiale e l’apocalisse di dolore della bomba atomica sono pugnali capaci di penetrare anche nei cuori più insensibili.
Scritto e pubblicato tra il 1973 e il 1975 sul settimanale Shōnen Jump e successivamente trasportato su altre testate per ragioni editoriali, l’opera completa di Hadashi no Gen consta di 10 volumi pubblicati dalla casa editrice Chobunsha tra il 1975 e il 1987. Giunta per la prima volta in Italia in forma estremamente ridotta tra il 1999 e il 2001, 001 Edizioni, con la sua prestigiosa collana Hikari, si propone di ripresentarla in forma integrale e commentata, con il titolo di Gen di Hiroshima, commemorando così il triste anniversario della bomba.
Gen di Hiroshima narra la storia del giovane Gen, bambino di sei anni che vive assieme alla sua povera famiglia nella popolosa città di Hiroshima, sulla costa sud-occidentale del Giappone. Gli anni sono quelle aspri e crudeli della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Impero Nipponico, controllato dalle oligarchie economiche e militari, riversava ogni risorsa della sua recente e rapidissima industrializzazione in un insensato conflitto espansionistico contro le potenze Alleate, prime tra tutte Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti. Questi ultimi erano i responsabili dei frequenti bombardamenti aerei che seminavano il terrore tra la popolazione, facendo vacillare anche il poderoso apparato mediatico costruito dagli alti ranghi politico-militari giapponesi, che volevano far credere che la vittoria dell’Impero del Sol Levante fosse inevitabile e ormai prossima.
Tuttavia, neppure i pochi, realistici sostenitori della pace, che, come il padre di Gen , hanno compreso la reale condizione tragica della loro nazione, si sarebbero mai immaginati l’orrore che si avvicinava silenziosamente con il prolungarsi del conflitto.
Esasperati dall’atteggiamento giapponese di guerra ad oltranza, fino all’ultimo aviatore suicida, fino all’ultimo kamikaze, e desiderosi di mostrare a tutto il mondo e in particolare al Comunismo Sovietico le tremende possibilità dell’armamento statunitense, il 6 agosto 1945 alle 8:16 del mattino, i generali americani diedero compimento al segretissimo Progetto Manhattan. Nell’ora in cui la città si stava risvegliando e i bambini uscivano per andare a scuola, una prima bomba atomica, soprannominata “Little Boy” brillò sulle case e davanti agli occhi degli abitanti. Coloro che videro tutta la sua infernale grandezza non sopravvissero neppure un istante per raccontarlo. Si calcola che circa 100000 persone furono spazzate via all’istante dall’esplosione o morirono in tempi immediatamente successivi per colpe delle radiazioni letale. Ma praticamente impossibile da definire è il numero effettivo delle vittime di quell’arma disumana, che portò con sé le più atroci sofferenze e infermità, assieme a malattie mai viste prime sulla faccia della terra. Poche ore dopo, una seconda bomba, “Fat Man” devastò il centro di Nagasaki. E fu la fine della guerra. E l’inizio dell’orrore.
Il primo volume dell’imponente opera del compianto maestro Nakazawa, dal titolo significativo Gen in erba è una sorta di angosciante conto alla rovescia. Risuona nella mente e nel cuore del lettore come il rimbombo dei passi del condannato a morte sul patibolo. Egli sa cosa sta per avvenire e l’autore lo prepara pagina dopo pagina, mostrando stralci della vita militare, commentando con didascalie cariche della sua personale esperienza gli atteggiamenti del popolo giapponese, nonché riportando gli ultimi preparativi statunitensi all’attacco nucleare. Eppure non si può fare a meno di sperare, almeno in parte, che quello che sappiamo accadrà non sia così terribile come ce ne hanno parlato i libri di scuola e i professori a fine programma. Dopotutto, Gen è un bambino solare, vivace, positivo e generoso, nonostante le difficoltà in cui vive la sua famiglia, costretta alla fame e coperta di insulti a causa dell’atteggiamento antimilitare del padre. Quasi ci fa dimenticare l’apocalisse imminente. Le prime pagine di Gen di Hiroshima sono un lucido ritratto della mentalità giapponese dell’epoca, sedotta dalla retorica imperialista e razziale dell’impero, votata quasi totalmente alla missione di distruggere i “demoni” inglesi e americani e portare la luce della divinità imperiale in tutto il mondo. Ma la voce discordante del padre di Gen, Daikichi, artista dissidente, tanto simile al padre dell’autore, è una voce che si eleva forte e fa risuonare il suo messaggio di pace fin oltre le vignette. Egli non è un padre perfetto, ma tenta in tutti i modi di esserlo. Nella miseri,a sprona i suoi figli a difendere la loro dignità; davanti agli insulti e alle offese non tradisce mai i propri ideali e non c’è colpo del destino capace di abbatterlo, proprio come quel grano che si ostina a seminare e a coltivare con amore.
Eppure, nonostante la nostra consapevolezza, nonostante tutti gli sforzi per rassegnarsi all’inevitabile, non si può non sussultare ed impallidire quando il mostro infine si scatena. La bomba nucleare fu un tumore fulminante nella storia dell’uomo. Un buco nero che sconvolse per sempre la vita sul nostro pianeta.
Difficile fare un elenco dei patimenti di Gen dopo quel fatidico 6 agosto. Con le immagini dei suoi amati fratello, sorella e padre arsi vivi dalle fiamme impresse per sempre davanti agli occhi, il piccolo sopravvissuto fugge dalle rovine di quella che un tempo era una città fiorente. Con lui ci sono la madre, devastata dal dolore, e la sorellina neonata. In un altro luogo del Giappone, in una stanza intatta, certo lussuosa e tranquilla, un pugno di dirigenti decide che l’oceano di sangue versato dal popolo giapponese ha raggiunto il colmo e dichiara la resa incondizionata dell’Impero agli Stati Uniti d’America. La guerra è forse finita nel resto del mondo, ma non c’è armistizio che possa arrestare il dramma sprigionato dall’atomo nell’arcipelago giapponese. Violenze, un dolore che fa impazzire e poi una fame disperata che spinge ai gesti peggiori. Nella moderna Pompei che divenne Hiroshima in quel mattino di agosto (una Pompei, però, questa volta voluta e progettata dall’uomo), l’innocente Gen si trova a dover lottare contro le peggiori abiezioni dell’uomo. Spinto dal suo cuore generoso e coraggioso, cammina per giorni e giorni alla ricerca di un po’ di riso per poter sfamare la sorellina e la madre e si trova così faccia a faccia con montagne di cadaveri e folle di morti viventi che arrancano lungo le strade avvolte in stracci della loro stessa pelle e con gli occhi arsi per l’esplosione. L’atomica ha reso un inferno peggiore vivere che morire e ha distribuito il suo carico di orrore fino ai nostri giorni e chissà per quanto ancora dopo di noi.
Il grano calpestato, cresci, grano, cresci e grano verde, cresci dritto e fiero sono gli altri titoli dei volumi di questa prima parte dell’opera di Nakazawa. In ciascuno di essi Gen e la sua famiglia continuano a lottare per la sopravvivenza, per cercare di trovare lo spazio di un breve sorriso nel lungo pianto iniziato con il fischio della bomba nel cielo.
Leggendo questa commovente apologia della pace e insieme straziante resoconto del dolore sofferto dalle vittime della guerra, tantissime sono le immagini, le parole, i personaggi e gli spunti che rimangono dentro al cuore del lettore. Voglio ricordare tre aspetti, che, in maniera particolare, mi hanno fatto amare Gen di Hiroshima.
Primo tra tutti, il personaggio di Gen. Un bambino, una vita da poco apparsa al mondo, che dovrebbe essere in teoria più fragile e incerta, ma che è in realtà l’unica luce di speranza e di ottimismo tra i fumi neri della distruzione. Come il grano, egli diventa sempre più forte ogni volta che è calpestato. Mai perde la fiducia nel futuro, mai si arrende e fa propria la lezione del padre, difendendo sempre i propri ideali di altruismo e generosità. Come quando si lancia per salvare una giovane danzatrice decisa a togliersi la vita perché sfigurata dalla deflagrazione, o come le innumerevoli volte in cui divide il proprio scarsissimo cibo con i più bisognosi. O ancora nei tantissimi momenti in cui dedica tempo ed energie a seppellire i resti dei defunti, là dove le stesse autorità li lascerebbero senza rispetto a consumarsi sotto la pioggia e il sole. Gen è il piccolo scrigno nascosto dove sembrano essersi rifugiate tutte le virtù dell’uomo spazzate via dall’esplosione. Ovunque vada assieme alla sua famiglia, non trova altro che diffidenza, sospetto, egoismo. Nessuno vuole aiutarli: i sopravvissuti dal grande flash, gli hibakushi, sono considerati come appestati, portatori di morte, e non si trova chi sia disposto a condividere i propri beni con coloro che hanno perso tutto senza avere colpe. Ma Gen, dal canto suo, non ne fa una colpa, non permette che il suo cuore sia corroso dall’odio e dal senso di ingiustizia per quello che è costretto a subire. Va sempre avanti, a testa alta e con una canzone sulle labbra, certo che prima o poi giungerà ad una vita migliore. E qui entriamo in contatto con la filosofia stessa di Nakazawa Keiji, che in prima persona dovette trovare dentro di sè la speranza per continuare a vivere nonostante il peso schiacciante dei ricordi.
Il messaggio più profondo dell’autore emerge proprio dalle azioni e dalle scelte di Gen ed è il secondo grande dono di quest’opera straordinaria. Un messaggio che ha il suo fulcro nella dignità dell’uomo, di ogni uomo, non importa in quali condizioni si trovi il suo corpo o il suo spirito. Il modo in cui Gen si accosta ai mutilati, ai malati per colpa delle radiazioni, agli stessi defunti, è una lezione di carità che solo un bambino poteva trasmettere in maniera così efficace. L’esistenza umana è fragile come una fiamma di candela e Gen lo impara tra le lacrime, assimilando l’insegnamento nel momento in cui si accosta ai sutra del Buddha, imparati a memoria prima per racimolare qualche soldo, poi per accompagnare le anime ad una nuova pace.
Terzo, ma non meno fondamentale aspetto che ha contribuito a conferire un posto di altissimo pregio nel mio personale pantheon delle vignette al capolavoro di Nakazawa è la lucidità del disegno. Spesso, quando un autore realizza un’opera più o meno intrecciata ad una propria esperienza personale di particolare sofferenza, il suo tratto risulta tormentato, travagliato, oscuro e a tratti aggrovigliato e grottesco, trasposizione su carta delle pene che si affollano nel suo animo. Gen di Hiroshima non è nulla di tutto questo. I profili dei personaggi sono sempre delineati con cura e chiarezza, le linee del volto sono semplici, poche e nitide, le forme del corpo morbide. L’ambiente naturale circostante non è meno puro e ha in sé tutte le caratteristiche della stampa giapponese: i prati dai fili d’erba pettinati con cura e disegnati uno ad uno e i grandi soli fatti di sottilissimi segmenti bianchi e neri. Osservandone distaccatamente il disegno, nulla potrebbe tradire in Gen di Hiroshima l’immenso carico di patimenti contenuto nella propria storia. Ciò, più di ogni altra cosa, è forse il segno dell’eroica impresa compiuta da Nakazawa Keiji come uomo, come persona: la vittoria, cioè, sul suo passato e i suoi ricordi, da cui non si è fatto schiacciare. Il suo desiderio di andare oltre pur senza mai dimenticare, di cercare un futuro migliore per sé ed i suoi cari, di appassionarsi alle cose belle della vita, come quella che sarebbe stata la sua professione e la sua grande dote, il fumetto. E il fatto che un sopravvissuto ad una tale dose di dolore sia capace di descriverlo con questa semplicità e armonia, anche quando rievoca i momenti peggiori, fa riflettere sulla reale portata dei nostri stessi problemi e difficoltà. Se Gen, se Nakazawa Keiji è stato capace di vincere contro Hiroshima, forse possiamo resistere anche noi.
Menzione speciale va infine all’immenso, mirabile lavoro di traduzione e commento realizzato dall’equipe coordinata da Marcella Maria Mariotti. Basato sul principio espresso da Jaqueline Berndt, secondo cui ” la traduzione delle memorie dei sopravvissuti alla bomba atomica non può che contribuire alla comprensione interculturale e sviluppare una maggiore consapevolezza dell’effettivo bisogno di pace”, il progetto di traduzione che ha visto riuniti studenti e laureati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia è stata la chiave dorata che ha reso possibile aprire lo scrigno di Gen. Indispensabile e preziosissimo è l’apparato di note alla traduzione, attraverso il quale è possibile comprendere appieno ed esplorare moltissime peculiarità della cultura giapponese del passato e del presente. Capire le usanze, penetrare i significati semantici delle canzoni, dei motti di spirito, delle battute, percepire la grande e antica saggezza dei proverbi nipponici e della spiritualità buddhista. Solo grazie al lavoro di tanti maestri dell’arte di creare ponti tra i mondi, il pubblico italiano ha finalmente avuto l’eccezionale possibilità di penetrare a fondo nel messaggio di Nakazawa, di entrare in contatto con l’oceano di sofferenza in cui naufragò il popolo giapponese in quegli anni tremendi e di partecipare almeno in minima parte a quel dolore. Tutti noi sappiamo quanto la storia, quella “ufficiale”, snaturi spesso la realtà delle cose, delle esperienze e delle emozioni, presentando agli ignari spettatori una sorta di geroglifico bidimensionale che ci lascia tanto indifferenti quanto annoiati. Gen di Hiroshima, magistralmente tradotto per noi da specialisti il cui nome sbiadirà purtroppo troppo presto, non potrà invece lasciare il proprio lettore impassibile. Non potrà, perché è una vita stessa resa opera di fumetto. E’ un bambino che lotta per trovare la speranza sotto montagne di ceneri velenose, è un autore che ha votato la propria vita a difendere la pace, come suo padre prima di lui, e ad insegnare agli uomini e alle donne di tutto il mondo a non permettere mai e poi mai che sia calpestato loro il diritto più prezioso. Il diritto ad una vita degna e felice.