In inverno le mie mani sapevano di mandarino, di Sergio Gerasi – una recensione

Pubblicato il 18 Dicembre 2014 alle 10:00

Non si può vivere in fuga dai propri ricordi. Come implacabili creditori, presto o tardi ti troveranno e il loro conto sarà più salato che mai.

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Questa potrebbe essere la morale, il messaggio ultimo di In inverno le mie mani sapevano di mandarino, grigia favola moderna di Sergio Gerasi. Di lui abbiamo imparato ad amare le intense tavole del suo personale Dylan Dog. Qui, invece, si presenta come autore completo, arricchendo con il proprio nome la scuderia già prestigiosa della collana di Bao Publishing Le città viste dall’alto.

Dopo averci aperto le porte della multietnica Berlino con Un lavoro vero di Alberto Madrigal e averci fatto passeggiare lungo i boulevard parigini con Il settimo splendore della triade Leonardo Favia, Ennio Bufi e Walter Baiamonte, la casa editrice del piccolo bulldog francese ci porta in una nuova terra, una nuova città, questa volta a noi più familiare. Si tratta della nostra industriosa, cosmopolita, ma sempre italiana Milano. Sotto le ombre appuntite della Madonnina e della Torre Unicredit è ambientato infatti l’emozionante racconto di Segio Gerasi, che, attraverso la vita del giovane Nanì, ci parla di temi profondi e dolorosi, ma con un tono pacato e semplice, quasi incantato.

Nanì si sveglia ogni mattina con la consapevolezza che non si ricorderà nulla del suo passato e si augura che ciò non accada mai. E’ spaventato, terrorizzato, perseguitato dai suoi ricordi e non ne vuole proprio sapere di affrontarli; per questo impegna tutte le proprie forze affinché la cerniera che ha sulla testa rimanga sempre sigillata. Sì, perché da quando Nanì è venuto al mondo, una robusta cerniera metallica gli attraversa la testa cespugliosa. Quando è aperta i ricordi sgorgano come acqua rabbiosa, quando è chiusa c’è il vuoto, l’amnesia. Per tenere a bada quel fiume in piena che ha dentro di sè e che preme contro la diga, per preservare la sua vita in una bolla di isolata placidità, il giovane milanese si affida alla chimica, a quintali di pastiglie, di cui fa un uso smodato e che acquista senza ricetta da un farmacista condiscendete. Questa è la sua routine. O meglio, lo sarebbe, se ogni giorno non fosse per lui una nuova atroce battaglia contro il peso della memoria.

Qualche volta gli capita di cedere, di non sopportare più la pressione ed ecco un fiotto di pensieri farsi strada oltra la cerniera e assumere una forma tanto sgargiante quanto assurda: sono i mostricciattoli urlanti che Nanì vede gironzolare attorno a sé, che gli si appendono alle gambe e che ringhiano con rabbia come a volergli ricordare che non potrà tenerli per sempre in gabbia.

La sua vita è così, un’eterna lotta per dimenticare. Il poco che gli serve sapere se lo scrive sulla pancia, di modo da averlo subito davanti agli occhi quando si guarda allo specchio, la mattina. E, tra le cose più importanti, non c’è nulla di più importante di sua nonna. La vecchina è ricoverata ormai da tempo, l’Alzheimer la sta consumando un morso alla volta. Di fronte alla decadenza della donna che l’ha allevato e gli ha voluto bene fin dall’infanzia, Nanì si sente soffocare dal dolore. Cosa fare per aiutarla?

Poi, un giorno, ecco la risposta: su una rivista di salute legge un incredibile annuncio: “La Celestina. Memorie dal passato”. Qualcuno, da qualche parte, vende memorie nuova di zecca. Ha così inizio il folle viaggio di Nanì alla ricerca di una cura per la nonna, un viaggio che lo porterà a conoscere una vetusto capitano di mare che lo condurrà a bordo di uno scalcagnato veliero ormeggiato nel Naviglio Grande e da lì, incredibilmente, in mare aperto. Rotta verso l’isola di Onalim, dove si trova il negozio “La Celestina”. Nanì e la sua straordinaria guida si lasceranno presto alle spalle tram e grattacieli per inoltrarsi in un arcipelago di terre stravaganti e sorprendenti, popolate da genti bizzarre ed estreme.

Ma la sua assenza si protrae troppo a lungo e, al suo ritorno a Milano, Nanì si troverà di fronte alla scelta definitiva: accettare ciò che è successo e che, nel bene e nel male, lo ha formato come uomo e lo accompagnerà per sempre, o abbandonarsi all’oblio.

In inverno le mie mani sapevano di mandarino. Solo il titolo basta a farci capire che abbiamo tra le mani un’opera densa di emozioni, di sensazioni, che guarda in viso le epiche sfide di una vita comune. Quello di Nanì è un viaggio in una traiettoria tonda, un’ odissea perdente, perché il suo eroe (o anti-eroe) tenta di scappare da ciò che invece dovrebbe affrontare a testa alta. Sergio Gerasi, attraverso le avventure del suo protagonista, parla a tutti noi, a noi quando ci sentiamo sopraffare dal peso della memoria, tanto di quella dolorosa, da cui vorremmo liberarci, quanto di quella lieta, che ci fa soffrire anche di più, perché ombra di una felicità passata, che non farà mai ritorno.

L’autore riesce nella prodigiosa impresa di affrontare temi importanti, come la malattia, lo straniamento, la lotta contro i fantasmi della vita e la difficoltà a trovare il proprio posto nel mondo, facendo uso di un linguaggio magnificamente vivo e colloquiale, in cui fanno ingresso anche le esuberanti battute in dialetto milanese della straordinaria nonna che ci parla attraverso i vari flashback. Sì perché, nonostante gli sforzi di Nanì per metterlo a tacere, il passato riveste un ruolo di primaria importanza nella sua storia, tanto che ogni “frammento di memoria cancellato” è una chiave preziosa per capire i motivi profondi delle sue scelte. Solo così il lettore può diventare via via sempre più partecipe delle sofferenze di Nanì e delle sue fobie, che all’inizio ci erano sembrate così assurde e ingiustificate.

La natura stessa del personaggio ci aiuta a vivere con intensità i drammi della vicenda: Nanì è infatti un ragazzo dalla sensibilità estrema, compassionevole, timido, impacciato e sognatore. E’ sempre stato diverso dagli altri, fin da bambino, non solo per quella sua cerniera sulla testa (e chissà se si tratta poi di una cerniera vera), ma soprattutto per la sua fanciullesca ingenuità e bontà. E Milano, archetipo di questo nostro mondo selvaggio e egoista, non è fatta per le persone buone, né per l’incertezza. Emblematico è lo scatto di disperazione di Nanì in una delle isole sulla rotta per Onalim, Milano gemella e capovolta, quando supplica un venditore ambulante di concedergli un po’ di cattiveria, per essere “solo un filo più cattivo”. Per essere capace di rispondere con durezza alle durezze della vita.

Ecco qui la denuncia ad una società che si finge democratica e giusta, ma che in realtà è spesso retta solo da avidità e spregiudicatezza, la stessa che fa guardare una montagna di rifiuti come un’opportunità di lucro e convince un farmacista sornione a vendere di tutto a tutti solo perché “hanno i soldi”.

In inverno le mie mani sapevano di mandarino è un fumetto semplice solo in superficie, ma pieno in realtà di significati e richiami: richiami espliciti, come a Memento e a Corto Maltese, così vicini all’esperienza del protagonista, al suo rapporto contrastato con la memoria e al suo animo romantico e insieme disilluso, sensibile e riservato. Poi ci sono i richiami legati all’esperienza di ogni lettore, come quello alle  Città Invisbili di Italo Calvino, che tanto ricordano gli incredibili luoghi toccati da Nanì nel suo viaggio verso Onalim. Un viaggio onirico alla Big Fish, ma, al contrario di quest’ultimo, venato di pessimismo e delusione. Nanì, nella sua fragilità e (auto)esclusione dal mondo rassomiglia ai tanti “omuncoli” pirandelliani, troppo deboli per affermarsi nel mondo, schiacciati da sensi di colpa ingigantiti a dismisura, tormentati nell’eterno dilemma di dove sia la verità, cosa sia la realtà. Chi è sano e chi è malato in questo nostro mondo di menti turbate e iper stressate?

Sergio Gerasi si destreggia in questo dramma intimo e sociale con luminosa maestria, avvalendosi di un arma a due tagli: il suo strepitoso disegno, capace di recidere qualsiasi tentativo da parte del lettore di non lasciarsi appassionare dalla tanto titanica quanto inutile lotta di Nanì.

Su una lama i volti netti e dettagliati dei personaggi, tutti, anche i pià fugaci, talmente espressivi da sfiorare quasi il caricaturale, ma senza mai diventare derisori.

Sull’altra gli acquerelli nebulosi degli sfondi, che, proprio per la loro vaghezza, esprimono perfettamente l’immensità degli spazi e dei panorami di quel mondo che ci circonda e che nulla sa della nostra sofferenza interiore. E allora le nubi di Milano, gli squarci di mare aperto, le dune di sabbia e il meraviglioso Naviglio Grande imbottito di nebbia diventano gli scenari perfetti per questa storia di contrasti. Grigi, bianchi, neri, ma rotti da piccole esplosioni improvvise di colori: i mostriciattoli fuggiti dalla cerniera di Nanì e il mandarino che gli ha lasciato in eredità la nonna, quella goccia che farà straripare alla fine il fiume di ricordi.

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