Gli Amari consigli, la recensione del visionario fumetto di Nicolò Pellizzon

Pubblicato il 17 Novembre 2014 alle 11:15

Visionario e allucinato, Gli Amari consigli dà forma e corpo alla paura della precarietà e del provvisorio

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Leggi anche la nostra intervista a Nicolò Pellizzon

Difficile, è davvero difficile parlare di questo fumetto. Allucinato sia per temi che nello svolgimento, dall’estetica quasi psichedelica e per nulla lineare o prevedibile nella narrazione, Gli Amari Consigli è un esempio senz’altro coraggioso di letteratura disegnata, di quelli che disegni solo se hai qualcosa dentro da dire o, come in questo caso, da far vedere. Non importa che cosa: quello, il senso delle cose, il compito di distinguere nettamente fra realtà e visione, tra quotidiano e onirico, tra follia e ricordo, lo lasciamo alla ragione normalizzante che con l’arte, con questo tipo di arte, ha molto poco a che fare.

Gli Amari Consigli racconta alcuni giorni nella difficile vita di Sara, una ragazza all’apparenza come tante altre, col sogno di lavorare nell’editoria ma costretta a barcamenarsi attraverso un lavoro precario in un call center, che non sente come adatto a sé e nel quale, di conseguenza, non riesce a combinare granché. Fino a qui quella di Sara può essere una storia semplice, in tutto simile a quella di migliaia di altre ragazze e ragazzi italiani, sospesi in un limbo dall’assenza di prospettive, costretti ad un’esistenza liminale sullo stretto e incerto confine di un presente eterno e privo di garanzie. Ma la sua esistenza è da sempre attraversata anche da un’altra sottile linea di confine, con gli anni sempre più labile ed evanescente: fin da bambina infatti Sara ha delle inquietanti visioni, tenute faticosamente a bada grazie a farmaci e sedute analitiche. Ora però quelle visioni non solo sembrano tornate più frequenti e incontrollabili, ma appaiono raccontare a Sara delle strane e inquietanti verità, predicendole un futuro fosco e la necessità di una non meglio definita scelta epocale da parte sua. In più le visioni e le voci che le accompagnano sembrano dimostrare effettivamente delle capacità divinatorie.

Si propone allora con angoscia crescente la domanda antica sulla consistenza del reale: cos’è questo concetto sfuggente, misterioso, che ci ostiniamo a chiamare realtà? E cosa lo separa dall’irreale, dalla pura immagine mentale che talvolta può invadere le nostre percezioni anche da svegli?

Queste domande accompagnano silenziosamente ma in maniera ineludibile l’intero volume, esplodendo poi in un finale aperto, anzi dichiaratamente mozzo, troncato, sospeso in un istante che prelude ad altro, ad una spiegazione magari che però non conosceremo mai. Ma le spiegazioni non sono importanti.

Ciò che conta in questo fumetto sono le immagini, i colori, le suggestioni.  Pellizzon ne riempie le tavole, rinunciando a qualsiasi soluzione di continuità fra riproduzione del “reale”, seppur disegnato, contenuto onirico. L’informità dei sogni invade le tavole, le travolge, cancellando rigidi margini delle vignette che sembrano voler ingabbiare il racconto riconducendolo ad un tentativo di razionalizzazione. L’effetto è straniante, tempo e spazio della tavola vengono a più riprese annullati in un vorticare di immagini mostruose e fantastiche, rese vive e penetranti dalla vividezza dei colori.

Le campiture ampie e luminose di pastelli acidi infatti, accompagnati da un sapiente gioco di ombre crepuscolari, rendono ancora più lugubre e straniante la sensazione di vertigine e perdita di solidità che si avverte nella lettura. Perdita di solidità che restituisce perfettamente, e altrettanto paradossalmente, la realtà drammatica del precariato, che gli incubi di Sara per molti versi, sembrano rappresentare in uno specchio deformante.

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