Recensione Studio Ghibli – La Città Incantata
Pubblicato il 23 Giugno 2014 alle 15:30
Per soli tre giorni il film dello Studio Ghibli sarà di nuovo nelle sale italiane!
Dopo l’uscita de La Principessa Mononoke nel 1997, Hayao Miyazaki era un uomo fisicamente a pezzi. Il regista e disegnatore allora 56enne aveva speso ogni grammo di energia sua e del suo Studio Ghibli per completare il film (che ottenne un successo di critica e nei botteghini senza precedenti), ridisegnandone quasi 80.000 fotogrammi in prima persona e arrivando al punto di promettere a se stesso che quello sarebbe stato il suo ultimo lavoro da regista.
Per nostra fortuna non è stato così e nel Luglio 2001 uscì La Città Incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, “Il magico rapimento di Sen e Chihiro”), forse il più conosciuto anime di Miyazaki e sicuramente quello che ne cementò la fama in tutto il mondo portandosi a casa un Oscar e un Orso d’Oro al festival di Berlino.
Chihiro, 10 anni, è in viaggio con i genitori per raggiungere la sua nuova casa.
L’irritante trasloco viene però interrotto quando il padre e la madre, durante una sosta in un vecchio parco divertimenti abbandonato, vengono tramutati in maiali e la bambina si è costretta a rinunciare al suo nome e a lavorare nella stazione termale frequentata da spiriti e divinità della strega Yubaba per non subire la sorte dei genitori e trovare un modo per salvarli. Ad aiutarla sarà il misterioso Haku, tirapiedi della strega che per qualche ragione sembra conoscere Chihiro.
Scrivendo La Città Incantata (che in barba al proposito di ritirarsi fu il terzo soggetto da lui proposto dopo l’uscita di Mononoke; i primi due vennero bocciati) Miyazaki riuscì anche a esorcizzare la sua esperienza con il film precedente; una delle molte letture della pellicola, proposta dallo stesso regista, è quella dell’ingresso nello Studio Ghibli di un giovane disegnatore (Chihiro) che incontra un capo fissato con il profitto e grado di far prosperare gli affari (Yubaba, ispirata allo storico produttore Ghibli Toshio Suzuki) e dei dipendenti stakanovisti costretti all’impossibile per raggiungere gli obbiettivi (il tecnico con otto braccia Kamagi, ispirato allo stesso Miyazaki).
Demoni-produttori a parte, la lavorazione si svolse con modalità inedite per lo Studio, che si affidò all’aiuto del computer per il colore e le rifiniture e stanziò un budget di circa 16 milioni di euro, una somma enorme rispetto agli standard precedenti. Dal punto di vista tecnico questo produce un’animazione spettacolare in cui i disegni realizzati a mano e poi passati al computer e le sequenze interamente digitali si fondono totalmente, senza passaggi bruschi.
Oltre ad essere una metaforica recluta dello Studio, Chihiro è una realistica bambina di 10 anni: è capricciosa, imbronciata per il trasloco che la separa dai suoi amici, non sopporta che i genitori facciano una deviazione per visitare un posto evidentemente spaventoso.
Potrebbe quindi sembrare che le avventure a cui andrà incontro lavorando alle terme siano il classico percorso di formazione in seguito al quale l’eroina ne esce migliorata e matura, noiosamente perfetta, ma è lo stesso Miyazaki a smentirlo, prima di tutto nel film (Chihiro è l’unica a comportarsi in maniera responsabile nell’evento che causerà la trasformazione dei genitori, quindi prima di affrontare le sue “fatiche”), poi per i più distratti in numerose dichiarazioni.
In questa ad esempio giudica l’idea ricorrente nella narrativa secondo cui attraverso un viaggio avventuroso i bambini possano maturare “una bugia”. Chihiro è la stessa dall’inizio alla fine, semplicemente in diversi momenti vediamo diversi lati di lei. Anche gli altri personaggi del film hanno personalità sfaccettate: ad esempio l’apparentemente generoso e maturo Haku non esita a buttare via la sua identità per un po’ di potere in più. Nessuno è perfetto né lo si diventa dopo aver sfiorato la morte.
La scelta di una protagonista dall’aspetto e dalla personalità così ‘normali’ si collega anche ad un altro degli obbiettivi dietro alla Città Incantata, ovvero quello di scrivere un’opera che “attirasse soprattutto le bambine” (parole del regista), prive secondo il fondatore dello Studio Ghibli di un intrattenimento adeguato per loro.
Trascorrendo del tempo insieme alla nipote e alle sue amiche Miyazaki aveva infatti trovato i manga shoujo (per ragazze) che leggevano imbarazzanti e così esageratamente romantici da provocare disgusto. Per l’ideale miyazakiano di storia d’amore fa evidentemente testo I Sospiri del mio Cuore.
Ci sarebbero poi l’aspetto ambientalista e quello della critica ad alcuni aspetti della modernità senza per questo spacciare i bei vecchi tempi come un paradiso senza macchia, ma non essendo Miyazaki non riuscirei a parlarvene senza annoiarvi, cosa che penso di aver fatto più che abbastanza.
Chiudo quindi accennando al nuovo adattamento e doppiaggio con cui il film arriva in sala: i dialoghi mi sono parsi molto più scorrevoli rispetto alle nuove versioni di Mononoke e Kiki – Consegne a domicilio, pur con il consueto abbondare di “Parrebbe” e con qualche periodo che stona in bocca a una bambina di 10 anni o ad una cameriera. Eccezionalmente il classico (per gli adattamenti italiani di Miyazaki) “nonnina” fa la sua comparsa solo un paio di volte verso la fine.
Nel caso non si fosse capito, questo è un invito ad andare a vedere nei prossimi giorni La Città Incantata. Non è una recensione (la volete? Eccola: è bellissimo!), non un approfondimento o un saggio. Andateci da soli, andateci con le figlie o i figli con mogli e fidanzate, mariti e fidanzati; i Mondiali non sono una scusa per non andarci, ci sono ogni quattro anni. Invece dopo questa occasione e Si Alza il Vento chissà per quanto tempo non vedremo un film di Miyazaki nelle sale. Non fatevela scappare.