Unastoria, la recensione del nuovo capolavoro di Gipi
Pubblicato il 20 Gennaio 2014 alle 13:30
Un albero rinsecchito. Una stazione di servizio. La natura e il suo opposto. Luoghi in cui convergono le vite dello scrittore Silvano Landi e del suo avo Mauro, soldato della Prima Guerra Mondiale, trovandosi a tu per tu con la disperazione, con il lato più oscuro di se stessi e del genere umano. Due esistenze che s’intrecciano in un percorso di caduta e speranza, due vicende che confluiscono in una singola storia. In Unastoria, appunto.
Unastoria
Autori: Gipi
Casa Editrice: Coconino Press
Genere: Drammatico
Provenienza: Italia
Prezzo: 18 euro
Data di pubblicazione: 4 novembre 2013
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Gianni Pacinotti, in arte Gipi, cinquantenne fumettista toscano, da poco passato dietro la macchina da presa, torna alle matite dopo una pausa di cinque anni per consegnarci il suo lavoro più maturo e profondo, forse anche il più personale, che lo consacra definitivamente come uno dei migliori, se non il migliore in assoluto, tra gli autori italiani e che gli ha fruttato una candidatura al prossimo premio Strega, la prima per un’opera a fumetti.
Gipi proietta un’intima alienazione dalla natura nello smarrimento di Silvano Landi, scrittore rinchiuso in un ospedale psichiatrico, intrappolato in una realtà allucinata, illustrata attraverso due elementi ricorrenti, ossessivi, nelle sue visioni, due luoghi dell’inaridimento, del distacco dal raziocinio, della lontananza dagli affetti.
Un albero rinsecchito, simbolo genealogico che collega Silvano al bisnonno Mauro, rami contorti come ragnatele di rughe scavate dalle lacrime, natura morta che si erge, nonostante tutto, nello scenario desolato e devastato, livido e glaciale, di un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale, al cospetto degli istinti più bassi dell’animo umano, un sonno della ragione che genera mostri come la prima mitragliatrice della storia, l’opposto della natura per eccellenza.
E poi una stazione di servizio illuminata dalle fredde luci artificiali della città. Qui la natura morente, inaridita, decadente è quella del corpo nudo di Silvano che vaga senza meta, anche lui scaraventato fuori dall’universo in un limbo privo di vita, tra stranianti medici senza colori, scarabocchiati da tratti sfuggenti e confusi come i pensieri di una mente malata.
Silvano sta lì, a contemplare il mondo esterno, mastodontico, sovrastante, bellissimo e crudele, mutevole e sempre uguale a se stesso, distaccato e inconsapevole della sua malevolenza, acquerellato di suggestioni cromatiche che toccano nel profondo. Una natura che attrae e respinge al contempo ma che è parte di noi e non può essere rinnegata senza perdere se stessi. E uscire di nuovo a volare, magari bassi, sotto un cielo uggioso, alla ricerca di uno spiraglio di luce tra le nubi, può essere un’apertura alla riconciliazione, un atto di coraggio, un attimo di vita.