Made in Italy #4: La critica del fumetto in Italia

Pubblicato il 28 Febbraio 2011 alle 13:16

Mi sono preso una piccola pausa dalle interviste dei precedenti numeri per affrontare un tema che mi sta molto a cuore, partendo da un episodio che vorrei condividere con i lettori.

Lo scorso 5 Agosto, il settimanale “sette” del “corriere della sera” è stato dedicato al fumetto, ed in particolare sono stati presentati 7 volumi editi da Rizzoli.

L’introduzione all’argomento è stata affidata ad Antonio D’Orrico, famoso (per alcuni famigerato) critico letterario e giornalista del quotidiano di via Solferino, che si è sbilanciato in un’analisi sul fumetto moderno e contemporaneo.

Consiglio a quelli che non l’abbiano fatto di reperire una copia dell’articolo, che io non sono riuscito a trovare in rete, ma che mi rendo disponibile ad inoltrare personalmente a chiunque lo volesse e non riuscisse a procurarselo.

Certe cose non possono passare sotto silenzio…

La mia pulsione istantanea, anche durante la lettura del contributo del D’Orrico, è stata un’indicibile rabbia, poi tramutatasi in sdegno al pensiero che, mentre i nostri articoli sono destinati ad appassionati di fumetto e che utilizzano la rete, il numero estivo di “sette” è passato per le mani di milioni di italiani la cui immagine dell’universo fumettistico è stata la seguente:

“Quei fumetti autarchici, sempliciotti ed ingenui (alcuni) non esistono più. Il fumetto è diventato molto snob (ora è più radical chic, prima era nazional popolare), preferisce farsi chiamare Graphic Novel, accreditarsi tra i generi di racconto e di illustrazione più raffinati.[…] Però forse il rischio che corrono ora i fumetti è una deriva esageratamente artistica e colta. Insomma, se fossi al posto dei fumetti non mi fiderei troppo degli intellettuali (che è sempre un atteggiamento consigliabile nella vita)”.

Si è parlato negli scorsi numeri dell’importanza di ampliare l’utenza del fumetto, soprattutto italiano, creando nuovi lettori, ma questa impresa appare vana se la critica del fumetto, in Italia, nasce e muore con Antonio D’Orrico,  ovvero se nelle riviste non specializzate, nei quotidiani e nei settimanali si parla solo di alcuni editori e non di altri, di certi autori, e non di altri, solo perché una presunta  intellighenzia ha deciso che così deve essere (o perché crede di aver capito tutto, o perché ha interessi, anche economici, in quello che dice).

Noi possiamo farci un vanto della nostra indipendenza e sono convinto che i lettori, questo, lo capiscano.

Insomma, per tornare all’articolo in questione, ho sentito il bisogno di scrivere una lettera al direttore del settimanale, che ho inviato per mail, ma che non ha avuto alcuna risposta.

Ne riporto il testo, sperando che possa servire a sollecitare la discussione ed il confronto.

“Egregio direttore,
sono un giovane avvocato napoletano, lettore affezionato del Corriere della Sera da quel giorno dei miei 17 anni (all’epoca a casa mia si leggeva La Repubblica) in cui, discutendo animatamente di politica con uno sconosciuto e distinto signore in autobus, questi mi donò la sua copia del quotidiano accompagnata dalla frase: “tenga, ecco il giornale che dovrebbe leggere se davvero è, come sembra, un giovane che vuol dare il proprio contributo al progresso del nostro paese”.

Essendo anche un appassionato del mondo del fumetto sono stato piacevolmente sorpreso dall’iniziativa del settimanale Sette, dello scorso 5 Agosto, ad esso dedicata.
Tuttavia le ottime aspettative sono state, purtroppo, disattese.
Non tanto perché gli unici volumi segnalati sono editi dalla Rizzoli Lizard (della quale apprezzo moltissime pubblicazioni: da Corto Maltese a Blacksad, da Scott Pilgrim a Taniguchi), ma per il contributo di Antonio D’Orrico (a cui Le prego di inoltrare questa e-mail non essendo il sottoscritto riuscito a reperirne in internet l’indirizzo di posta elettronica) che, invece di limitarsi semplicemente a recensire i fumetti pubblicati, si è addentrato in un’umilissima proustiana “recherche del fumetto perduto”.
La qual cosa potrebbe essere interessante se l’esperienza fumettistica del D’Orrico non fosse eccessivamente limitata, come appare dalla sua analisi che, senza contare alcune abissali lacune, non fa un passo oltre gli anni ’80 del secolo scorso.
E tuttavia se a ciò si fosse limitato il contributo dell’illustre critico letterario, avrei semplicemente considerato noioso l’articolo, ma sarebbe stata un giudizio personalissimo.
Quello che invece devo ritenere, come amante dei fumetti, offensivo, è il modo in cui il D’Orrico giudica quello che il fumetto è diventato oggi.
Ciò non per l’opinione in sé, per quanto la trovi superficiale ma al tempo stesso presuntuosamente fariseica, ma perché, ed è questo il motivo della mia missiva, tutti i lettori del Corriere della Sera hanno avuto come immagine del mondo del fumetto la seguente:
“Quei fumetti autarchici, sempliciotti ed ingenui (alcuni) non esistono più. Il fumetto è diventato molto snob (ora è più radical chic, prima era nazional popolare), preferisce farsi chiamare Graphic Novel, accreditarsi trai generi di racconto e di illustrazione più raffinati.[…] Però forse il rischio che corrono ora i fumetti è una deriva esageratamente artistica e colta. Insomma, se fossi al posto dei fumetti non mi fiderei troppo degli intellettuali (che è sempre un atteggiamento consigliabile nella vita)”.

In definitiva un’idea distorta che non rende giustizia, non incentiva alla lettura né conferisce dignità a quella che un vero critico d’arte, Claude Beylie, definì la nona arte.

Innanzitutto snob non è un termine che si addice al fumetto il quale, checché ne pensi D’Orrico, é ancora trattato come genere letterario di serie b, soprattutto in Italia (ma sappiamo come la realtà culturale del nostro paese sia in rapido declino).
Tra l’altro, circostanza che lo stesso D’Orrico credo ignori, uno dei principali editori del fumetto che egli stesso definisce “autarchico sempliciotto e ingenuo”, e quindi, mi par di intuire più “nob” in quanto nazional-popolare, ossia Sergio Bonelli, ha sempre etichettato quello che pubblicava come “bagattelle”, salvo fare oggi un voltabandiera da perfetto uomo politico per recuperare consensi osannando l’artisticità del genere fumettistico.

Quello che dovrebbe esser chiaro è che nel fumetto, come nella letteratura, esistono dei generi, e definire snob (o peggio ancora radical-chic) un graphic novel è come dire che la poesia è più snob della prosa, che Dickens è più “popolare” di Scott, che i film di Fellini sono radical-chic rispetto a quelli di Totò.
Insomma, un pressappochismo che non si addice a chi scrive per la più importante testata giornalistica del nostro paese.
In sostanza è come se il D’Orrico avesse dato un’opinione dell’attuale politica Italiana avendo soltanto un vago ricordo della Prima Repubblica.

Non può darsi, a mio avviso, una seria interpretazione dell’evoluzione del genere fumetto senza conoscere, almeno, la scuola franco-belga, quella sudamericana, quella inglese, il genere supereroistico e l’esperienza dei manga giapponesi.

Nessuno che ha letto Maus definirebbe neanche lontanamente Art Spiegelman radical-chic.
Nessun lettore potrebbe mai dire che Watchmen sia snob (pur essendo stato l’unico fumetto ad entrare nella classifica dei 100 romanzi più significativi della letteratura inglese).
Nessun appassionato userebbe l’espressione, sprezzante pur se mascherata dal tono paternalistico, “deriva esageratamente artistica e colta” per riferirsi a L’Incal di Alejandro Jodorowsky e Moebius.

Così come non lo farebbe chi ama un particolare romanzo, una canzone, un film per descrivere la letteratura, la musica, la cinematografia.

L’immagine che credo dovrebbe darsi del fumetto è invece quella di un medium dalle infinite potenzialità, perché aggiunge alla letteratura le immagini, ma geneticamente complicato nel linguaggio (le vignette devono dar la sensazione del movimento pur essendo statiche, a differenza del cinema).
Uno strumento che possa divertire e commuovere, raccontare la realtà o consentire al lettore di evaderne; un mezzo espressivo altamente estetico ed alla portata di tutti per la sua intuitività.

Oppure, a volerne rappresentare la realtà italiana, si potrebbe parlare della crisi, riflesso di quella che vive la cultura in generale, delle difficoltà dei giovani e talentuosi sceneggiatori e disegnatori che spesso sono costretti a pubblicare i loro lavori all’estero, e dell’oligopolio delle case editrici (tematiche su cui riflettere anche al di là del fumetto).

La visione del tipo “ma che, alla sua età legge ancora i giornaletti” lasciamola all’uomo della strada ultrasettantenne e superficiale.

Ci sono scrittori di “giornalini” che sono andati a dipingere tavole a fumetti in zone di guerra dove non sarebbe stato possibile, né opportuno, scattare fotografie, e ne hanno fatto dei reportages.
Ci sono autori che hanno creato mondi fantastici a cui si è ispirata gran parte della cinematografia e la letteratura degli ultimi 20 anni.
Ci sono editori intraprendenti che amano il loro lavoro e girano il mondo per pubblicare il meglio in un paese in cui le persone non leggono più neanche i quotidiani, e nonostante ciò con passione e dedizione sono, a volte inconsapevolmente, fautori di una vera e propria rivoluzione culturale.
Tutti costoro si meritano molto di più che essere bollati come snob e radical-chic, o il loro lavoro diffusamente percepito come in una deriva esageratamente artistica e colta.
I lettori del maggior quotidiano del nostro paese si meritano, a mio avviso, un angolo visuale molto più ampio e veritiero e, magari, qualche stimolo intellettuale in più.

Nel ringraziarLa per il tempo dedicatomi nella lettura di questa mia, con la speranza che continuerete a dedicare spazio al mondo del fumetto nelle prossime pubblicazioni, magari con l’ausilio di professionisti davvero esperti del settore, porgo
Distinti Saluti

Armando Perna”

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