Ex Machina – Recensione

Pubblicato il 1 Agosto 2015 alle 23:47

Caleb, programmatore presso Bluebook, il più popolare motore di ricerca del mondo, viene scelto per essere ospite di Nathan Bateman, geniale capo della compagnia, nel suo centro di ricerche in montagna. Nathan ha creato Ava, un robot umanoide dotato di intelligenza artificiale e vuole che Caleb la metta alla prova con il test di Turing per capire se si tratti di un essere cosciente.

Ex Machina

Un’intelligenza artificiale figlia di una conoscenza collettiva che sviluppa la propria personalità in una crescente consapevolezza di sè. Lo spunto suggestivo che richiama alla mente Her di Spike Jonze, 2001: Odissea nello spazio e Blade Runner, segna l’esordio alla regia dell’inglese Alex Garland, romanziere, sceneggiatore di 28 giorni dopo e Sunshine per Danny Boyle, del cinecomic Dredd, uscito nel 2012, oltre ad aver collaborato al reboot del videogame Devil May Cry.

La sovrastruttura fantascientifica cela un sottilissimo thriller psicologico sostenuto da accattivanti dialoghi filosofici e suddiviso in sessioni, ognuna delle quali affronta e sviluppa un tema specifico tirando in ballo astrazione e sessualità. La caratterizzazione dei personaggi da parte dei tre interpreti principali è minuziosa. Oscar Isaac e Domhnall Gleeson (li ritroveremo entrambi in Star Wars: Il Risveglio della Forza), nei ruoli di Nathan e Caleb, formano una vincente dicotomia. Il primo è muscoloso, festaiolo, estroverso e realista. Il secondo è gracile, pacato, più timido e romantico.

Il cuore del film, tuttavia, è la deliziosa attrice svedese Alicia Vikander che fornisce la sua graziosa fisionomia e una perfetta mimica corporea al robot Ava. Il suo software è frutto del motore di ricerca Bluebook e i dialoghi con Caleb, le domande, lo scambio d’informazioni sembrano proprio quelle di un utente che cerca risposte su Google. E’ quindi inevitabile riflettersi nel robot e la regia di Garland sfrutta spesso gli specchi come metafora di proiezione della mente umana nell’intelligenza artificiale. Ma il mondo aldilà dello specchio è anche il luogo in cui Ava è intrappolata. In tal senso, l’abitazione di Nathan, fortemente new age e circondata da splendidi paesaggi naturalistici rispecchia l’ibridazione tra natura e tecnologia ma segna anche il confine tra gabbia e libertà.

Il film diventa un’esplicita partita a scacchi nella quale i personaggi cercano di stare sempre una o più mosse avanti all’altro. Anche lo spettatore viene chiamato a partecipare alla stessa partita anticipando spesso quelle domande che di lì a poco gli stessi protagonisti si porranno. Nella casa avvengono dei black-out durante i quali Nathan non può monitorare i dialoghi tra Caleb e Ava. Ma è la verità o si tratta di un inganno? La domestica giapponese di Nathan è un robot? A questo punto chi ci dice che non lo sia anche Caleb?

Il thriller regge bene, le rivelazioni finali funzionano e l’epilogo è a dir poco perfetto. Ogni singola inquadratura, con la rispettiva fotografia, è studiata per essere il più possibile espressiva e comunicativa fornendo un’esperienza visiva memorabile. Una potente parabola sul rapporto creatore-creatura e sul concetto di autoconsapevolezza. Uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni. Diventerà un classico.

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