Intervista esclusiva a Roberto Recchioni
Pubblicato il 13 Giugno 2013 alle 14:00
Lo sceneggiatore romano è il nuovo curatore di Dylan Dog.
Roberto Recchioni, fumettista d’esperienza ventennale, co-creatore di John Doe, ed ora in forze alla Bonelli, è stato recentemente nominato curatore di Dylan Dog, testata per la quale ha scritto poche ma memorabili storie, su tutte Mater Morbi, recentemente ristampata in un lussuoso cartonato edito da Bao. Abbiamo incontrato Roberto a casa sua per un’interessante e gradevole chiacchierata.
Hai da poco avuto il tuo primo incontro con Tiziano Sclavi. Ci racconti com’è andata?
Il mio primo incontro con Tiziano Sclavi è stato molto strano. Avevo finito di rileggere da poco Non è successo niente, il romanzo in cui racconta se stesso e il mondo Bonelli. Sono andato con Mauro Marcheselli, attuale direttore della Bonelli ed ex-curatore di Dylan Dog nonché uno dei protagonisti del romanzo. Mentre andavamo in auto attraversavamo i luoghi del romanzo, scortati dal suo coprotagonista. Sembrava di stare ne Il Seme della Follia, il film di Carpenter. E’ stato un incontro molto surreale. Tiziano m’è sembrato in forma, piuttosto allegro (che non è un aggettivo che si usa spesso per Tiziano Sclavi) e molto propositivo. Aveva voglia di parlare di Dylan Dog, e di serie televisive e di videogiochi e di cinema. Di lavoro non si è parlato quasi per nulla. Un mese dopo ho ricevuto la sua telefonata e la richiesta di diventare il curatore di Dylan Dog.
Quando sei stato nominato curatore di Dylan Dog ho pensato che avresti potuto trovarti in difficoltà nel gestire altri sceneggiatori che sono al lavoro sulla serie regolare da più tempo rispetto a te. Il pezzo che hai pubblicato in proposito sulla pagina ufficiale di Dylan Dog su Facebook (lo trovate qui), invece, ha fugato i miei timori. Il tuo approccio è stato molto moderato.
Il pezzo apparso su FB è l’introduzione di un documento molto lungo inviato agli sceneggiatori sulle linee guida di come io e Tiziano vorremmo che Dylan Dog fosse scritto sempre. Tutto questo processo di rinnovamento nasce dalla spinta di Tiziano Sclavi. Non è insegnare il lavoro a qualcuno ma è spiegare come ci piacerebbe che Dylan fosse scritto, d’ora in poi. Gli sceneggiatori all’opera su Dylan Dog hanno tutti esperienza, ma sono grossomodo tutti al mio livello. Io lavoro da vent’anni, ho alle spalle John Doe e un sacco di altre cose. Una lunga esperienza nell’ambito della scrittura Bonelli ed extra-Bonelli, e questo è un punto di forza.
Non vivo un rapporto di inferiorità o di inesperienza con gli altri sceneggiatori. Rispetto alla situazione in cui si è trovato Giovanni Gualdoni (precedente curatore della testata), per me è relativamente più facile. Giovanni si è trovato di fronte a me, a Michele Medda, a Paola Barbato, a Carlo Ambrosini, persone con un forte carattere, una forte impronta autoriale che avevano chiaro in testa come volevano Dylan Dog. Per me il contesto è un po’ più semplice. Michele, Paola e tutti gli altri avevano trascurato Dylan recentemente per altri lavori e ora sono tornati a bordo. Sono entusiasta di questo. Ma tornano da pari. Io non mi sento inferiore a loro e loro non si sentono superiori a me. E’ un lavoro di squadra.
Come sceneggiatore non ho la pretesa di apparire spesso su Dylan Dog. Ho la pretesa di scrivere un paio di storie l’anno e lasciare il lavoro grosso sul mensile agli altri. Quello che farò sarà seguire gli autori, suggerirgli qualche idea, chiedere delle storie specifiche in base alle necessità. Era questo quello che faceva Mauro Marcheselli ed è questo che rendeva Mauro un grandissimo curatore di Dylan Dog.
Per quel che riguarda il tuo lavoro su Dylan Dog, in questo momento vieni identificato soprattutto con Mater Morbi. Hai scritto altre storie valide come Il Modulo A38 e Il Giudizio del Corvo ma i lettori parlano soprattutto di Mater Morbi e adesso si aspettano sempre storie di quel livello da parte tua. Questo ti mette in difficoltà?
E’ lo stesso discorso di quando azzecchi una hit. Se vai ad un concerto di una band, ti aspetti che suonino il loro singolo più famoso e amato. Mater Morbi mi resterà appiccicata addosso, nel bene e nel male. Non sarò mai uno di quelli che si lamenta per aver avuto un successo ma spero proprio di riuscire a scrivere una storia di maggior successo di Mater Morbi, altrimenti potrei ritirarmi adesso.
In questo momento sento parlare soprattutto degli sceneggiatori di Dylan Dog. Sento parlare poco dei disegnatori. Pensi che vengano utilizzati nella maniera migliore?
Ci sono delle problematiche relative anche ai disegni. Il fatto che l’attenzione e le critiche dei lettori si rivolgano principalmente alle sceneggiature mi fa capire che la qualità dei disegni è comunque apprezzata ma sono sicuro che si possa fare di più e di meglio. Io ho individuato quelli che, per me, sono alcuni problemi. Bisogna riportare l’entusiasmo in taluni disegnatori che, forse, l’hanno perso dopo tanti anni. Bisogna capire come tornare a stimolarli oppure individuare progetti che li stimolino più di Dylan Dog. Se un disegnatore, dopo vent’anni, non ha più voglia di fare Dylan Dog e vorrebbe andare a fare Tex, forse è il caso che vada a fare Tex.
Mi vengono in mente Montanari & Grassani. Una coppia di disegnatori che io adoro e che vengono definiti i più amati dai fans. Il Maxi Dylan Dog era nato proprio per raccogliere le nuove storie disegnate da loro. Eppure, negli ultimi tempi, si avverte una certa insofferenza da parte dei lettori nei loro confronti, forse anche perché il loro tratto è inevitabilmente cambiato nel corso degli anni.
Montanari & Grassani sono il classico esempio di disegnatori che dividono il pubblico. C’è sempre stato un fortissimo gruppo di sostenitori che identifica Dylan Dog in Montanari & Grassani. Ma ce ne sono altrettanti che ritengono Montanari & Grassani un male inevitabile perché sono i due autori che realizzano più tavole e hanno permesso a Dylan di uscire tutti i mesi. Ad oggi, il Maxi Dylan Dog disegnato da Montanari & Grassani è la seconda testata del personaggio che vende di più. Loro avranno sempre una fan-base molto forte e rappresenteranno sempre un volto di Dylan Dog. Chiaramente i tempi cambiano e immagino che siano anche un po’ stanchi.
Ho la sensazione che le storie di Dylan Dog che funzionano meglio siano quelle che lo vedono al centro della narrazione, nelle quali vive l’orrore sulla propria pelle, esattamente come in Mater Morbi o nel bellissimo Necropolis di Paola Barbato, piuttosto che limitarsi ad indagare sul caso della cliente di turno. Pensi che possa essere un ingrediente fondamentale per la riuscita delle storie del personaggio?
E’ un discorso complicato. E’ verissimo che le storie funzionano meglio quando tiri dentro Dylan. Questo perché i comprimari che vengono creati oggi sono troppo deboli. Se pensi a storie come Il Fantasma di Anna Never o Memorie dall’Invisibile non erano storie che Dylan pagava sulla sua pelle nell’immediato. Erano incubi di altri che Dylan andava a risolvere eppure erano storie incredibilmente coinvolgenti perché Tiziano sapeva creare dei personaggi di contorno talmente forti e caratterizzati che diventavano motore della narrazione. Oggi quei personaggi non sono caratterizzati con altrettanta forza e attenzione. Del resto Tiziano è un genio in tal senso.
In tempi recenti, Dylan viene utilizzato troppo spesso come uno spettatore della storia. Il Dylan spettatore non lo voglio più vedere. Storie in cui Dylan non fa altro che assistere ad una serie di eventi che gli capitano davanti non appariranno più. Dylan dev’essere centro e motore della storia.
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Sempre sulla pagina ufficiale di Dylan Dog su Facebook hai pubblicato un post che auspica il ritorno allo splatter. Affermi che si tratta di un elemento che non andrà utilizzato in maniera gratuita. Ma lo splatter è di per sé un elemento d’exploitation. Non si rischia di cadere in contraddizione?
Lo splatter meravigliosamente idiota degli anni ’80 fa parte di un genere specifico. Andare a replicare quelle meccaniche significherebbe tirar fuori uno di quei prodottini fighettini tipo Machete, nel quale hai tutta la consapevolezza del genere e lo replichi con un distaccato senso di superiorità post-modernista. Una roba che non sopporto. Gli elementi gore e splatter nella cinematografia in genere sono diventati comunissimi. Ho visto cose più splatter in un episodio di C.S.I. che guarda mia madre che in tanti numeri di Dylan Dog recenti.
E’ assurdo che noi non possiamo mostrare cose che mostra un telefilm che va in chiaro sulle reti nazionali. Ieri ho visto un film per ragazzine di quindici anni e ho visto braccia staccate e donne dal volto tumefatto. E’ cambiata la sensibilità della gente nei confronti degli elementi gore. Bisogna tornare ad inserire quegli elementi nelle storie di Dylan senza la paura che qualcuno li viva con disagio.
E per quel che riguarda l’eros, da sempre elemento fondamentale in Dylan Dog?
Vale lo stesso discorso. Ha senso che una donna sia nuda se è a letto con Dylan o se è una scena di sesso? Sì. Ha senso che la donna nuda vada ad aprire la porta a qualcuno che ha bussato? No. Nel secondo caso è una scena gratuita, nel primo è una scena narrativamente utile. E’ solo buon senso.
Hai intenzione di riportare in auge qualche vecchio personaggio della serie?
Utilizzare vecchi personaggi è un trucchetto facile per andare a suscitare la nostalgia della gente. Ho invitato tutti gli sceneggiatori a creare personaggi forti e nuovi. Nella manciata di storie che ho raccontato io, c’è sempre un qualche personaggio. Magari non sono memorabili (penso a Nonna Mannaia ne I Nuovi Barbari), oppure funzionano (come Axel Neil, Mister Giggle e Mater Morbi), ma buoni o cattivi che siano, sono un tentativo di creare qualcosa di nuovo, senza vivere sempre sulle spalle di Tiziano Sclavi.
Non credi che in questo momento ci siano troppe testate dedicate a Dylan Dog? In un anno abbiamo i dodici numeri della serie regolare, lo Speciale, il Gigante, l’Almanacco, due Maxi e due Color Fest. Con tante pubblicazioni, una flessione nella qualità delle storie non è fisiologica?
Ogni anno vengono pubblicate 1.900 pagine di Dylan Dog. Sono proprio tante. La verità, però, è che vengono consumate, segno che il pubblico non è stanco del personaggio. Oggi ho bisogno di tutto lo spazio necessario perché dobbiamo recuperare tutta una serie di storie e, nel contempo, creare un corso nuovo. Ho bisogno di un ampio margine di manovra per distribuire il materiale che ho già e per creare materiale nuovo.
Una volta fatto questo, cercheremo di razionalizzare le uscite iniziando ad esaminare quelle testate che non hanno molto senso. Penso al Dylandogone che ha sempre sofferto ed è lo speciale Bonelli che vende meno. O troviamo modo per ristrutturarlo e dargli più senso o bisogna ripensare la sua esistenza. Oggi, però, anche il Dylandogone deve esistere perché serve alla gestione del personaggio (e, comunque, guadagna).
Quando inizieremo a vedere i primi segni di rinnovamento nella serie?
Il rilancio di Dylan Dog passa attraverso due fasi. La fase uno è un lavoro “leggero”. Da settembre, con una storia scritta e disegnata da Carlo Ambrosini, cominceremo a vedere tutta una serie di modifiche all’interno di Dylan Dog, cambierà lo stile con cui Stano disegna le copertine, tornerà un Horror Club che verrà inaugurato da Tiziano Sclavi e portato avanti da me e Franco Busatta, l’altro curatore della testata. Cominceranno ad apparire le storie riviste da me, da Sclavi, da Paola Barbato e da Mauro Marcheselli. Rivedere le storie significa apportare correzioni per venire incontro alla necessità di un linguaggio più fresco. Abbandoneremo il “voi” e si passerà al “lei”. Daremo un taglio a un sacco di spiegoni, pensieri inutili e cose di questo tipo. Cercheremo di dare alle storie un linguaggio più dinamico.
La seconda fase è l’inizio del nuovo ciclo di Dylan Dog. Un arco di quattro o sei storie (lo stiamo stabilendo in questi giorni) cambierà un po’ lo status quo di Dylan. Alcune cose date per assodate non saranno più assodate, alcuni elementi che c’erano prima non ci saranno più e verranno integrati elementi nuovi. Da quel momento inizierà il nuovo corso e tutti gli sceneggiatori lavoreranno in tal senso. Il gruppo di sceneggiatori cambierà. Avremo un ritorno forte di Paola Barbato, l’integrazione di Gigi Simeoni, chiamato subito per la terza storia del nuovo ciclo, il ritorno di Michele Medda più Alessandro Bilotta, più altri sceneggiatori nuovi o che hanno fatto solo storielle brevi su Dylan ma si sono distinti.
Hai spiegato che Tex e Dylan Dog sono le due facce della stessa medaglia, un po’ come Superman e Batman. Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo Tex?
Su Tex avevo appena iniziato. Ho realizzato due storie, una lunga e una breve, e contavo di continuare. Oggi mi è impossibile. Tra Dylan Dog, gli Orfani e tutto il resto, cercare di scrivere anche Tex con l’attenzione e l’impegno che richiede sarebbe al di là delle mie forze. Ci tornerò appena mi sarà possibile.
Il mio Tex cerca di essere una storia con molta azione, molto giocata sul ritmo e sulla forza. Il bello di Tex è che puoi fargli fare cose che nessun altro personaggio può fare. Tex è il personaggio più politicamente scorretto, non della Bonelli, ma in genere. L’unico personaggio vicino a Tex è Jack Bauer. Però Jack Bauer si fa uno scrupolo morale di quello che fa. Tex no perché ha sempre ragione e, se pensa che qualcuno sia colpevole, anche se non ha le prove, quel qualcuno sarà sicuramente colpevole. Tex è infallibile come Dio.
Ti piacerebbe cimentarti con qualche altro personaggio della Bonelli?
In realtà no. Pur apprezzando molto alcuni personaggi, sono davvero molto lontani dalle mie corde. Non ho l’entusiasmo per l’avventura naif di Zagor, non ho l’approccio dettagliato che ha Mauro Boselli su Dampyr, non riuscirei mai a scrivere una storia di Martin Mystere perché è lontano dal mio modo di narrare. Ho amato tantissimo Nathan Never nel corso degli anni ma oggi siamo agli antipodi come tipo di gusto.
Orfani, la nuova miniserie Bonelli sceneggiata da te sembra davvero un progetto ambizioso. Cosa ci puoi dire in merito?
Orfani parte ad ottobre. A riguardo ripeto sempre una cosa che mi fa sembrare uno di un ufficio marketing ma che ritengo importante: Orfani è la serie col più alto budget mai realizzata non solo in Italia, ma al mondo. Per i primi dodici numeri costerà un milione e trecentomila euro. E’ un investimento su lunghissimo termine. La Marvel lavora con un anticipo di sei mesi. Qui stiamo parlando di un anticipo (con soldi pagati prima) di quattro anni. E’ la cosa più ambiziosa mai fatta da una casa editrice. Mille e duecento pagine tutte a colori, realizzate tutte in anticipo e con delle richieste qualitative altissime. Io e Emiliano Mammucari (il co-creatore grafico) siamo a dir poco tesi.
E’ una serie che sta facendo tremare i polsi a chiunque ci si stia confrontando. E’ difficilissima da pensare, da disegnare e da colorare. Il livello raggiunto in questi quattro anni, per tutti quegli aspetti che non mi riguardano, è elevatissimo. Non mi sembra che ci sia una serie che possa vantare una tale qualità al mondo in questo momento. Sono albi di 94 pagine colorati con uno standard qualitativo che non ha niente da invidiare ai migliori albi francesi, disegnati da alcuni artisti straordinari. Rimane il dubbio delle storie. Magari ho sbagliato tutto, chi può dirlo? Fortunatamente, quelli che lo hanno letto si sono divertiti. Arrivati a questo punto, posso solo fidarmi.
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In molte delle tue storie, a partire da John Doe, c’è un continuo utilizzo del linguaggio metanarrativo. Perché ti affascina tanto?
Dipende dal contesto. Quando sei giovane l’idea del metalinguaggio è affascinante perché è il linguaggio che riflette su se stesso. Sono un grande appassionato di linguaggio e mi è capitato spesso di proiettare questa cosa nelle storie. John Doe era un grande laboratorio sperimentale.
Era divertente giocare con il linguaggio e cercare di alzare il tiro. La metanarrazione è provocatoria. Nel momento in cui riflettevo sul linguaggio in John Doe, potevo permettermi di criticare il linguaggio Bonelli, il linguaggio del fumetto in genere e di John Doe stesso. Era una testata fortemente provocatoria negli intenti perché aveva la necessità di urlare forte contro il cielo. Lo dicevo spesso nei redazionali. Non essendo Bonelli dovevi farti notare in tutte le maniere possibili. Ogni forma di provocazione possibile è stata inserita in John Doe.
Nel mio lavoro alla Bonelli, questo è un aspetto molto più sfumato. Sono un paio d’anni che sto portando avanti un tipo di narrazione più controllata e ragionata che mi ha portato a fare, ad esempio, La Redenzione del Samurai che è il trionfo del mio essere in pieno controllo. Anche lì, per assurdo, l’elemento metanarrativo è forte, seppure non palesato. L’utilizzo della gabbia così rigido e il controllo di quella scrittura diventano metanarrazione proprio quando sto parlando di samurai, di codici e di onore. Il rigido codice dei samurai va a riflettersi nel codice del linguaggio.
A proposito de La Redenzione del Samurai, i lettori aspettano il sequel.
Sì, stiamo lavorando alacremente. Andrea (Accardi) finisce il secondo a luglio. Sotto il punto di vista dei disegni, è un capolavoro assoluto. Dovrebbe essere pubblicato sempre nel 2013 all’interno de Le Storie Bonelli. Andrea migliora ad ogni pagina che disegna. A pagina 110 del primo era già un maestro. Queste successive sono incredibili. Dovrebbero essere tre o quattro episodi. Sono più propenso per quattro. Il secondo si concentrerà sulla figura delle kunoichi, le ninja femminili. Il terzo riguarderà i ronin. Il quarto sarà un crossover nel quale i personaggi dei primi tre si riuniranno per concludere le loro vicende.
Ti piacerebbe confrontarti con storie più lunghe, tipo I Romanzi a Fumetti Bonelli?
La struttura dei Romanzi cambierà, diventeranno miniserie brevi. E’ un progetto molto interessante curato da Michele Masiero. E’ un po’ ridicolo quello che sto dicendo perché sono quattro anni che sto lavorando sulla stessa serie ma mi spaventa molto l’idea di una cosa così lunga che richieda così tanto tempo di realizzazione. Non ne ho mai avuto voglia.
Se John Doe è Roberto Recchioni come vorrebbe essere, Asso che cos’è?
John Doe è un’esternazione figa di come sono mentre David Murphy è quello che mi piacerebbe essere. So di essere un figlio di buona donna. John Doe è la versione figa di un figlio di buona donna. Quello che mi piacerebbe essere è un bravo ragazzo, quindi David Murphy. Asso è grossomodo una versione commerciale di me. E’ divertente, riesce a sdrammatizzare molte cose che mi fanno male o che mi hanno creato problemi. Sto iniziando a ragionare sull’idea di un secondo volume dedicato al personaggio. Tornerà perché gli voglio bene. Tra qualche mese inizieranno anche delle strisce di Asso su XL.
Leggendo Diabolik ho sempre avuto la sensazione che fosse un fumetto difficilissimo da sceneggiare e, poco tempo fa, me ne hai dato conferma. Leggendo David Murphy 911, invece, ho avuto la sensazione che sia il personaggio con cui tu ti sia divertito di più.
Sì, Murphy lo amo. E’ un personaggio che voglio riprendere. Fino a poco tempo fa non potevo farlo perché i diritti erano nelle mani della Panini e adesso sono di nuovo liberi. E’ un personaggio che ho adorato perché è legato al mio genere cinematografico preferito, ovvero l’action. E’ un personaggio che mi permette di essere molto solare e che mi fa giocare con il ritmo. Non so quando ma presto o tardi lo riprenderò. L’ho infilato anche in John Doe.
Sei sempre molto attento alla condizione del mercato e stiamo vivendo tempi molto difficili. Hai da poco pubblicato un post sul tuo blog nel quale parli della lenta morte dei bonellidi in edicola. E’ davvero così grave la situazione?
E’ un discorso complicato che verte su vari fronti. Se parliamo di stato di salute del mercato del fumetto in Italia, le cose vanno abbastanza bene. E’ chiaro: c’è una crisi che colpisce tutti i settori ma il fumetto, per assurdo, non ne è colpito così duramente come tutto il resto. Sarà che il fumetto in Italia costa poco, sarà che il settore del fumetto nelle librerie di varia è in forte crescita (soprattutto grazie a quel fenomeno di Zerocalcare). Sarà che Tex continua a tenere tutto in piedi… ma la ruota continua a girare e nemmeno così male come dicono alcuni.
Quando senti persone parlare del fumetto in crisi, di solito parlano dall’alto dei loro insuccessi e senza mai tenere conto dei successi altrui. Certo, ci sono delle difficoltà: le edicole stanno soffrendo molto, tutto il settore della distribuzione sembra in mano a pirati e tagliagole, le fumetterie sono invase da un esubero di produzione da parte di case editrici che sembrano badare più alla quantità che alla qualità, il pubblico è sempre più specializzato e frazionato… ma il fumetto, nonostante tutto, regge ancora bene. E il fumetto Bonelli regge ancora meglio di tutti.
E dal punto di vista creativo? Vedi talenti davvero validi in giro?
Avevo il terrore di vivere una generazione che non mi avrebbe permesso di conoscere quelli che poi sarebbero diventati i nuovi maestri. Pensavo che sarebbe stato bello vivere nella generazione in cui c’erano Magnus, Pratt, Pazienza vivi e in piena forma. Oggi, a quarant’anni, mi rendo conto che non è così. Vivo in una generazione in cui ci sono Gipi, Emanuele Fior, Leo Ortolani, Zerocalcare e tanti altri. Che sono maestri nuovi e che lasceranno il loro segno, nonostante la critica sia lenta e non riesca a dargli, oggi, quell’investitura culturale che meriterebbero.
Una domanda che sta molto a cuore a tanti lettori: ci sono tanti disegnatori italiani all’estero ma non ci sono sceneggiatori. Perché?
Chi è di madrelingua inglese non prende neanche in considerazione l’idea di lavorare con persone che non lo sono. Per arrivare a quel mercato devi scrivere in lingua inglese perché pensi in lingua inglese. Del resto, quanti autori inglesi lavorano per il mercato italiano? La scrittura è controllo del linguaggio. Se scrivi in una lingua non tua, parte di quel controllo la perdi. Mentre un bel disegno resta un bel disegno. Ovunque tu lo legga.
Comunque sia, questo tipo di domande sono sempre frutto della mentalità provinciale e esterofila italiana. Ho sempre detto che Hellblazer era una delle poche serie che mi sarebbe piaciuto scrivere. Ma scrivere Hellblazer significa vendere 15.000 copie negli USA e complessivamente 40.000 nel mondo quando Dylan Dog ne vende 120.000 ogni mese. La somma di tutte le copie vendute di Sandman è inferiore ai 200.000… e non negli USA, in tutto il mondo. Tutti i numeri di Sandman hanno venduto, nel mondo, meno di un singolo numero di Tex. Fa impressione e dà da riflettere, no?
Chiudiamo con una domanda che potrebbe risultarti un po’ sgradevole. Se non fosse stato per la tua malattia, non avresti mai scritto quel capolavoro che è Mater Morbi, forse non saresti l’artista che sei con la personalità che hai e non saresti nemmeno il curatore di Dylan Dog. Ti soffermi mai a pensare a quanto sia tragicamente ironico? Quanto senti, per assurdo, di dover dire grazie alla tua malattia?
C’è una poetessa che dice: “Se ami tuo figlio portalo in un cespuglio di rovi.” E’ una cazzata. In Mater Morbi rispondo alla domanda. C’è un ragazzino, Vincent, che riflette sul fatto che le vicissitudini sanitarie l’hanno reso più adulto e gli hanno permesso di capire meglio le cose. Dylan, perplesso, chiede: “Vuoi dire che non preferiresti scambiarti con un bambino sano?” Vincent gli risponde: “Sei cretino?” Ovviamente preferirei essere sano. Del resto, quanto ha influito l’alcolismo per Bukowski? Non mi sto paragonando a lui, è solo un parallelismo.
Io sono la somma di tutte le mie esperienze. Probabilmente, a fronte di esperienze diverse, sarei un autore molto diverso, magari anche meno interessante. Oppure potrei aver fatto esperienze più fighe ed essere un autore comico.